Enrique Vargas, s’intuisce, in certi giorni di tanti anni fa ebbe paura. Paura di morire ma, ancora di più, paura di vivere da disgraziato, da inconsapevole. Una creatura atterrita che fa il conto alla rovescia delle settimane che lo avvicinano alla forca, fra suoi simili altrettanto spaventati. Cercò allora un luogo dove affrontare la paura. Dove sconfiggerla, per quanto possibile.
Questo luogo è mitologico, quindi più presente del presente: il labirinto di Cnosso a Creta, commissionato a Dedalo da re Minosse per rinchiudere Asterione il Minotauro, corpo di uomo, testa di toro, intrattabile come sono i tori e, talvolta - sempre troppo spesso rispetto al concetto di Umanità ideale - gli uomini. Uno dei veri mostri in circolazione dai secoli dei secoli, ucciso da Teseo che poi, con l’indispensabile filo dipanato da Arianna, trovò pure l’uscita del labirinto. Non c’è lieto fine - come potrebbe? - e strazia a ripensarci che Teseo, forse inebriato dalla valentissima impresa e dall’amore di Arianna, dimenticò di issare le vele bianche che avrebbero segnalato a suo padre il successo. E suo padre Egeo si uccise, gettandosi nel mare che porta il suo nome.
Siccome Vargas è un antropologo, un regista e un creatore di mondi da esplorare con i sensi per calarsi nella coscienza, dopo essere stato con il pensiero nel suo labirinto e avervi combattuto le sue battaglie, sullo sfumare del Novecento lo costruì per chiunque abbia il desiderio di incontrare se stesso in versione Teseo, Minotauro, Arianna. Questo labirinto è stato riallestito in settembre al Funaro di Pistoia, casa italiana di Vargas e del suo Teatro de los Sentidos di Barcellona, e El hilo de Ariadna ha finalmente debuttato in Italia: cinque repliche invece delle tre previste, per cinquantaquattro persone a replica.
Il filo di Arianna è un’avventura mitologica per uno spettatore-viaggiatore alla volta che entra scalzo, senza orologi, gioielli, borse e soprabiti, nelle strade di tendaggi e frasche e le percorre da solo in un’oscurità di tanto in tanto rischiarata da luci soffuse, accolto, accompagnato, piantato in asso (all’apparenza), inquietato, consolato dagli attori-abitanti. Amato dagli attori-abitanti, che ricambia, dimenticando l’antipatia per il prossimo avvertita su un autobus affollato e preso dall’incantamento di un’armonia cosmica.
Si racconta con difficoltà, l’universo di Vargas. Quasi non si racconta. È un universo profumato di spezie, fiori e terra, morbido di distese di lenticchie dove farsi accarezzare nel buio. Un universo dove abbandonarsi affinché l’itinerario sia “facilissimo e non difficilissimo” e alla fine arrivino alcune risposte. Abbandonarsi alla notte, all’abbraccio di madri assolute che ti cullano, al tocco dell’amore carnale, alla bellezza, ai ricordi d’infanzia, alla simulazione della propria sepoltura, all’incontro con il Minotauro che ti trovi di fronte in uno specchio con il suo muso di toro e… il tuo corpo.
L’attore-abitante all’entrata spiega che curiosità, timore, valore, oblio e un po’ di mistero miscelati nelle giuste dosi potranno rivelare un individuo sconosciuto: te stesso. “Rischiando puoi perdere qualcosa. Non rischiando perdi tutto” dice Vargas. Ed è meraviglioso fidarsi di questo signore colombiano con gli occhi e perfino i baffi espressivi alla maniera sudamericana, assecondarlo quando, attraverso gli attori-abitanti del dedalo, suoi alleati nella poetica dei sensi perché sono anche ricercatori, ti invita a chiudere gli occhi, a camminare carponi, a infilarti in un cunicolo che per pochi istanti ti pare senza uscita. Fidarsi di Vargas è vivere un’ora che non si esaurisce in un’ora.
Quando esci dal labirinto, con le lenticchie nel reggiseno, nelle tasche, solo spogliandoti realizzi che quel materasso paradisiaco era fatto di legumi, con la terra sotto le unghie, ma ti senti di un lindore straordinario, è semplice tornare alla quotidianità: sognante eppure corroborato dal viaggio mitologico-sensoriale. Ti chiedi: chi potrei portare con me da Vargas alla prossima, preziosa, rara occasione? Claustrofobici, donne incinte e ragazzini sotto i tredici anni sono esclusi. Ma gli altri? Come reagirebbero? Il mistero, appunto: nei labirinti della vita puoi scoprire molto, se vuoi, mai tutto.