L’arte urbana (s)fugge anche se cerchi solo di raccontarla. Un po’ come fanno gli autori che dipingono nell’illegalità perché la loro “tela” sono gli spazi pubblici. Street art, graffiti, muralismo, writing o il bombing – pittura d’assalto ai treni - sono arte contemporanea, controcultura, avanguardia? Da mezzo secolo questa forma espressiva è parte dell’iconografia quotidiana, ma sulla sua testa pendono ancora punti interrogativi – specie in Italia – tenuti in vita soprattutto da “addetti ai lavori”. Un esempio: quest’anno alla Quadriennale di Roma - istituzione nazionale che promuove l’arte contemporanea italiana - la Street art non era contemplata. Eppure è stato Vittorio Sgarbi a definire “Cappella Sistina della modernità” il dipinto di Ozmo - al secolo Gionata Gesi – sul muro del centro sociale milanese Leoncavallo.

«Siamo al paradosso dell’approccio storico: l’arte urbana è mainstream delle minoranze», afferma Paulo Lucas von Vacano organizzatore di Cross the street «una mostra per tentare la storicizzazione del fenomeno Urban Art, tirando le fila del movimento artistico e mediatico fra i più influenti degli ultimi quarant’anni, oggi unica avanguardia della globalizzazione. Tutti i writers – prosegue von Vacano - parlano la stessa lingua dall’Australia al Congo e con internet la cosa si è amplificata. Moda, design, grafica, cinema vampirizzano la Urban Art. Perciò è diventata mainstream, ma mancava una prospettiva storica».

La mostra in corso al MACRO di Roma (aperta fino all’1 ottobre) ha questo merito: storicizzare un movimento propulsivo, poliedrico, che sempre più incrocia linguaggi espressivi restando perciò “inafferrabile” e senza etichette. Come in un certo senso lo è anche il curatore Paulo Lucas von Vacano. Figlio di un ambasciatore tedesco e di madre romana, anche lei di famiglia diplomatica, a 14 anni è scappato di casa per diventare punk. Era il 1980: «ho deciso di andare a vivere nel mondo di sotto dopo un concerto dei Clash a Londra», ricorda. Da quel momento è sempre stato connesso con la scena underground anche finito il punk, grazie pure al fatto che «nonostante me ne fossi andato dalla famiglia mio padre mi ha permesso di studiare, continuando a coltivare l’interesse per il mondo disagiato». Ha fatto il giornalista di arte e musica, ha lavorato in una casa editrice romana e in seguito ne ha fondata una sua, la Drago, che si occupa esclusivamente di arte della/dalla strada. «Da vent’anni ho scelto di vivere a Roma perché a Venezia la gloria, a Basilea il mercato, a Roma l’eternità», dice divertito. E poi nella capitale ha trovato moglie, avuto figli. Si è radicato ma non fermato e oggi, che ha poco più di 50 anni e non ha mai dimenticato di essere figlio di un diplomatico «per cui faccio sempre cose per veicolare la società, l’economia, la politica attraverso la cultura», è stata naturale l’idea di raccogliere tutti – per la prima volta - i giganti della scena Urban internazionale che «danno un messaggio alla nuova generazione: la strada è determinante per vincere».

Vincere?

Frank Shepard Fairey è autore del ritratto di Obama pubblicato sulla copertina del Time durante la prima campagna elettorale. Obama stesso ha detto che quell’immagine, divenuta subito iconica, è stata determinante per la prima vittoria. Il movimento rappresenta la lotta civile illuminata che vuole migliorare il mondo nel bene (e non nel male), viene dalla strada e continua a parlare alla strada, rappresenta le minoranze che sono la maggioranza, mentre intorno a noi si è arroccata una neo-oligarchia feudalica. È questo movimento che ha fatto perdere il referendum a Renzi e le elezioni alla Clinton appoggiando Sanders. L’arte è da sempre lo specchio di un disagio sociale.

La prima mostra sui graffiti fu nel '79 a Roma. Keith Haring e Jean-Michele Basquiat dalla strada sono arrivati nelle gallerie già trent’anni fa: si può ancora parlare di controcultura?

Preferisco parlare di sic, sistema indipendente della cultura, versus suc, sistema ufficiale della cultura. Haring e Basquiat sono stati perseguitati come spesso accade alle avanguardie, sono scomparsi negli anni Ottanta e con loro si è chiusa una prima fondante esperienza. La Urban Art si trasforma con il trasformarsi della strada, cambia segno: la tecnologia, l’intelligenza artificiale incidono. Resta forte il messaggio sulle discrepanze dei diritti. Il contesto sociale è mutato. Si sta verificando quanto preconizzato a metà del secolo scorso dal filosofo francese Guy Debord in Società dello spettacolo. La pace armata conquistata negli anni Settanta ora sta scemando, è fomentato l’odio, la media borghesia impoverita arranca, l’accentramento della ricchezza è in mano a poche famiglie.

Quindi?

Quindi, come abbiamo scritto anche nel catalogo, oggi più che mai la strada osserva, restituisce, indirizza. E scegliere la creatività a discapito della criminalità è una posizione che incentiva l’arte, la musica, lo sport. La rivoluzione avviene quando la strada entra nel museo e il museo si trasferisce nella strada. Chi sopravvive alla strada governa il mondo!

A proposito di sopravvivere: difficoltà per allestire la mostra a Roma?

Roma è immensamente giusta e la più bella di tutte. Se non le soccombi conquisti il globo, se capisci le strade il mondo sarà tuo».

Chiaro…

«E poi tutte le strade portano a Roma e Roma ha il primato di durata del bombing dei treni, il mezzo migliore per veicolare un messaggio ovunque. Non si poteva che ricominciare da qui.

Un primato?

In Italia per ridipingere un treno ci vogliono 20 mesi, altrove 20 giorni. Va da sé che ogni opera sui vagoni resta a lungo visibile. Nelle altre città sono state approvate leggi punitive che hanno fermato il bombing. Da noi e a Roma in particolare le stesse leggi non hanno funzionato perché non si rispettano il padre e la madre, l’autorità. Riprova estrema di questa mentalità: Blu a Bologna è stato staccato dai muri per volontà delle Istituzioni culturali e portato nei musei, a sua insaputa. Peccato che Blu, come Bansky, non voglia starci nei musei. In questo caso illegalità ha incontrato illegalità. Io al MACRO, coerentemente, non li ho invitati.

Invece c’è chi, privati e associazioni, ripulisce le città e si accorda con Street artist per riqualificare zone depresse.

Quando la strada sceglie la creatività è cosa buona, specie se si onora la libera espressione e le regole del movimento.

E il rispetto è la prima regola: non si deturpa, ma si scelgono supporti vetusti, fatiscenti, abbandonati, recuperati dalla collettività. Un vero Street artist è prolifico, ha uno stile e non pensa che i graffiti siano “una palestra per il proprio ego”, come nota Emiliano "Stand" Cataldo, storico writer romano, precisando che “per noi l’affermazione non passa da come ti vesti, da dove vieni e qual è il tuo credo politico: conta solo la qualità del lavoro”. Ergo, il movimento è distante da chi “imbratta” senza un vero perché o con segni non comprensibili a tutti; agisce si unito dalla mancanza di autorizzazioni, ma soprattutto dal desiderio di raccontare la realtà, modificare il profilo percettivo degli spazi per comunicare con chi li abita. E questo è evidente nella mostra che ospita anche opere realizzate in loco, la cui sorte non sarà certo quella toccata al lavoro che Keith Haring fece sul Palazzo delle Esposizioni nel 1984, successivamente cancellato per l’arrivo del Presidente Gorbaciov nella Capitale. «Un esempio di miopia istituzionale – commenta von Vacano – che raccontiamo a Cross the street. Sebbene però siamo arrivati in un museo per mostrare tutto quello che abbiamo fatto per strada, sulla strada vogliamo tornare e con tecniche particolari ci porteremo alcune opere dipinte sui muri del MACRO. Intanto come testimonianza c’è un documentario sul making della mostra». Proiettato al museo, presto il doc sarà nei canali web e ai festival. Gli autori, Camillo Cutolo alla regia e Mattia Levi all’editing, due giovani romani che conoscono bene la scena urbana, hanno filmato in totale libertà artisti e pubblico: «Filo conduttore la veridicità: davanti alla telecamera ognuno è rimasto se stesso - racconta Cutolo - e spero che questo arrivi anche a chi, valutando più la forma che la sostanza, rivaluta la street art solo perché l’ha vista in un museo». Il film cerca di restituire «le tante realtà, un passato e un presente, la continuità – spiega Levi - aspetti vincenti della mostra insieme con le opere “sbattute in faccia” quasi a giudicare chi guarda esercitando un impatto potente, anche se ho visto quella potenza svanire davanti a chi cerca solo di farsi un selfie con i colori alle spalle». Come qualcuno dice nel documentario: “fra 70 anni quando non ci saremo più capiranno che eravamo un movimento di artisti intelligenti con qualcosa da dire”. Non sarebbe la prima volta. La Storia è piena di (in)compresi postumi. E la Storia, si sa, si ripete. Pur cambiando.

Cross The Streets "unplugged" - TEASER from Camillo Cutolo on Vimeo.