Millennio di cambiamenti, di evoluzione, di tecnologia, di corse contro il tempo che, crediamo di avere sotto controllo, ma che in realtà ci sfugge di mano. Tutto nasce dalla terra, dove gli esseri viventi hanno lentamente piantato radici profonde crescendo ed espandendosi con essa e, offrendo ad altri nuove possibilità di fare lo stesso. L’uomo ha iniziato così; per qualcuno da miti religiosi, per altri da un’esplosione, ma comunque sia da un comune denominatore posto sotto i propri piedi di cui abbiamo assaporato l’essenza più profonda.
Il tempo è un flusso impalpabile percepito tramite emozioni condizionate da quel che leggiamo di sfuggita sui giornali, che udiamo tra le chiacchiere fatte in un bar, da qualche reporter in televisione, durante le numerose ore spese alla scrivania dell’ufficio e via dicendo. La tecnologia è figlia del tempo e, ormai, regina indiscussa delle conversazioni e della routine di ognuno di noi. Ormai si presenta come protagonista indiscussa di sviluppo e cambiamento di culture e tradizioni intere modificando la percezione di spazio e tempo. Un banale esempio è il viaggio: ricordo ancora i miei nonni che la sera mi raccontavano dei meravigliosi viaggi che avevano avuto la fortuna di fare, ne ero affascinata e pensavo a come sarebbe stato bello poterlo fare ogni giorno. Di fatto oggi è possibile, l’aumento dell’offerta ha ovviamente fatto crollare i prezzi portando quel “lusso” fortunatamente alle tasche di tutti.
Ogni settore ha sino ad oggi goduto degli sviluppi tecnologici, dalle industrie più moderne legate al digitale all’agricoltura, nessun settore escluso; il problema è che tutto questo è accompagnato di pari passo alla crescita dell’ego umano. Viviamo in un mondo in cui “tempismo” e “velocità” sono parole chiave, in cui il tutto non basta e il troppo non esiste. Alcuni paesi tuttavia riescono a rimanere aggrappati (grazie alle insistenti iniziative di associazioni quali Green Peace e Slow Food) a quella che è l’essenza della propria cultura, educando le nuove generazioni a rispettare non solo gli altri esseri viventi (umani, animali, vegetali che siano), ma proprio l’ambiente stesso; riproponendo il concetto di tempo secondo quello originariamente dettato dalla Natura.
La trasformazione delle società è rapida e segue la velocità del digitale, delle tecnologie, scienze ecc. Con queste infinte possibilità tuttavia oggi non riusciamo a controllare le gigantesche problematiche dovute alla sovrapproduzione che ha trasformato la popolazione mondiale in un esercito di schiavi della tecnologia, interessati al mero consumo e acquisto di nuovi impianti. Uno dei settori che ad oggi porta più problemi (poiché si tratta di prodotti deperibili) è quello alimentare. Secondo dati FAO, siamo arrivati a un punto in cui 1\3 del totale viene buttato via poiché non siamo in grado di stoccarlo.
Abbiamo trasformato i bisogni in vizi senza scopo. Lo scienziato Pollan, nel suo libro Il dilemma dell’onnivoro ricostruisce numerose casistiche in tema; una a parer mio estremamente interessante è il caso del mais: è arrivato dalle Americhe, ne esistono centinaia di varietà ed è stato uno dei simboli della sopravvivenza di numerosi popoli (un po’ come la patata in Irlanda) per le sue caratteristiche di adattabilità e resistenza ai suoli poco favorevoli. Ha un importante valore nutrizionale, in particolare legato all’apporto di zucchero. Come dice Pollan nel suo libro: “È quasi impossibile trovare un’etichetta priva di sciroppo di mais o simili” (soprattutto negli Stati Uniti).
Se viviamo in un mondo così tecnologico, com’è possibile che non siamo in grado di sfruttare le risorse del pianeta in modo equilibrato e rispettoso? Stiamo lentamente scorticando dalla terra le materie che ci ha offerto per svilupparci, cancellando la biodiversità e quella che è l’identità di un territorio. “Giustamente” all’alba del 2017 abbiamo ancora paesi che muoiono di fame e altri che vivono a braccetto con l’obesità poiché non sono in grado di calcolare nemmeno quanti viveri mettere nel proprio carrello mentre fanno la spesa, pur essendo benissimo a conoscenza di quella malattia.
Parliamo di inquinamento dell’aria e dell’acqua (una delle fonti principali di inquinamento sono gli allevamenti intensivi di carne, continuiamo pure ad abusarne), del km 0, degli OGM, del biologico e di quanto sia orribile inserire olio di palma o zucchero bianco negli alimenti; quello di canna? Forse, solo se rigorosamente grezzo o direttamente estratto dalle canne. Avete mai pensato che, forse, sono prevalentemente informazioni d’impatto poste sui pack dalle aziende che ci influenzano (sanno senza dubbio fare il proprio lavoro) non appena il nostro sguardo vi si poggia? In quanti leggono effettivamente le etichette e quante persone all’uscita dell’ultima moda “no olio di palma” sono davvero andate a fare ricerche sul perché della questione, quali siano i danni effettivi alla salute, all’ambiente, economicamente o politicamente.
Ascoltiamo i media e le chiacchiere, siamo a conoscenza dei problemi che stanno disintegrando lentamente dal cuore culture e territori e non facciamo niente. Abbiamo trasformato una necessità in moda, la salute e l’attenzione per il proprio essere non fa più parte di una necessità per vivere bene in futuro, ma è diventata l’ulteriore consumo e acquisto guidato a prodotti che fanno sentire inseriti nella società. Quante sono le persone realmente celiache, vegetariane o vegane? Il boom della celiachia deriva dal fatto che le farine industriali hanno subito dei processi di lavorazione che le rendono difficilmente digeribili per alcune persone, ma i media parlano mai del perché? Se non sbaglio passano direttamente a consigliare quali prodotti conviene consumare, per evitare il problema. Vegani, vegetariani o fruttariani? Perché? La percentuale di persone che si affida a questo tipo di dieta secondo ideali convinti è bassissima rispetto a quella delle persone che vi si sono adattate per accontentare un partner, andare in qualche ristorante o seguire una moda.
Siamo diventati una società pigra, che aspetta la soluzione più rapida e meno dolorosa per soddisfare un capriccio personale, non un bisogno comune. In alcune cittadine inglesi hanno avviato un progetto per recuperare il concetto di comunità. Nelle aiuole del paese anziché piantare fiori e piante ornamentali hanno messo frutti e verdure adattabili allo spazio e al loro clima. La comunità si occupa di esse in collettività, ponendo (una volta pronte) dei cartelli per avvertire i passanti che possono raccogliere i frutti. Il tutto si basa sul rispetto per il prossimo, il mio dubbio è: in Italia saremmo in grado di attuare un progetto simile? Riesco già a immagine le persone che si accingono con cestini per arraffare più cibo possibile.
In Francia ci sono aziende 100% sostenibili, con inserimento di orti basati sulla permacultura (accostamento di specie coltivabili con caratteristiche tali da aiutarsi nello sviluppo) in modo da sfruttare al massimo lo spazio e la produttività, limitando le spese aziendali (è anche dimostrato statisticamente che attività del genere in ambito lavorativo favoriscano un migliore rendimento). I paesi nordici, come sappiamo, sono quelli che maggiormente considerano il tema dell’ambiente: lo rispettano e lo portano su piano nazionale educando da subito le generazioni a convivere con esso nel migliore dei modi.
Possibile che in Italia, nel nostro piccolo, non ne siamo in grado? Ci lamentiamo senza alzare un dito, la pigrizia è troppa anche solo per informarsi a riguardo. Leggete le etichette, un paio di articoli in più al giorno, i cambiamenti nascono in piccolo e crescono nelle comunità. È l’informazione e la visione di quel che ci accade intorno che può stimolarci ad alzarci in piedi e desiderare di fare qualcosa.
Prima o poi, forse, anche il nostro paese potrà riflettere nelle persone quella che è una bellezza territoriale avvolgente e unica: invidiata dal mondo intero, ma che per colpa di ognuno di noi non riusciamo ad elevare come meriterebbe.