L’invenzione del templum è l’indispensabile corollario della finitezza dell’uomo. Il più antico sentimento del sacro si è acceso nel segreto silenzio delle foreste, ma il terrore suscitato dall’immenso mistero della natura ha ispirato la mano del primo architetto. La spinta a circoscrivere, delimitare, separare, è stata la cifra di un naturale impulso di autoconservazione: gli dèi hanno bisogno di case in cui vengano deposti doni, gli uomini di soglie da attraversare, affinché il caos di un universo senza controllo sia catturato in uno spazio gestibile e rassicurante, ricondotto a criteri di armonia. L’ispirazione del bosco ha guidato la creazione del giardino, un macrocosmo che si sintetizza in microcosmo perfetto per diventare comprensibile. Il progetto, già abbozzato in un immaginario arcaico e condiviso, ha avuto una lunga incubazione nell’idea estetica e sensoriale del primordiale giardino della creazione, che ne ha fornito archetipi e simboli. Il paradiso, che nell’antica lingua persiana definiva un “luogo chiuso”, nella trasmissione quasi pedissequa alla lingua greca ha materializzato quel bacino di meraviglie che ha abitato le fantasie di tutte le civiltà. Non solo l’Eden o il mitico giardino delle Esperidi, ma una cangiante moltiplicazione di scenari naturali a fare da palcoscenico di eventi cosmici, ricettacoli di ogni sorta di piante e fiori miracolosi raccolti intorno a possenti alberi totemici dispensatori di vita e conoscenza, protetti da potenti guardiani.
La magia protettiva della soglia si è propagata nelle successive declinazioni etimologiche. Il témenos greco e poi il templum latino, sono di fatto aree recintate, e così è per l’orto. L’evocazione di pace contemplativa dell’hortus conclusus dell’estetica cristiana ha molti precedenti arcaici, e ricorda il bosco sacro recintato delle culture mediterranee, legato alle divinità femminili, custodi di personalissimi orti primordiali che proteggevano i segreti della forza medicinale dei semplici. In questo universo allegorico vegetativo rientravano i giardini di Igiea, nei quali i discendenti di Asclepio acquisivano i saperi farmaceutici; quelli di Afrodite, che i greci chiamavano dea dei giardini, olezzanti di fiori afrodisiaci e di foglie dal sussurro ipnotico; quelli di Chloris, divinità verdeggiante e primaverile che sarà la Flora dei romani, signora di ogni specie floreale. E se Demetra aveva potestà sui campi sconfinati di grano, Era si fregiava di un giardino chiuso, il più santo, custodito da ninfe e difeso da un drago insonne, e il penetrale segreto di Artemide, inviolato paradiso di tutte le erbe officinali, era protetto da sette cinte di mura e da portali di bronzo.
Nel poetico e solidale passaggio delle eredità spirituali, nel cristianesimo l’hortus conclusus diventerà il luogo prediletto di Maria, nuova custode, e si farà metafora stessa della verginità e della santità della madre di Dio. Il linguaggio dell’arte, intrecciato a quello simbolico della natura, segnerà il passaggio delle virtù figurate, di significati e simboli dalle radici profonde, in un’immutata corrispondenza. In questi omphaloi metafisici, riservatissimi e lussureggianti giardini di vita, prendeva vita l’ingegnosa aspirazione dell’uomo a riprodurre l’infinita meraviglia, a interpretare il ruolo di giardiniere di dio.
Tra le pagine di Omero possiamo ammirare la rappresentazione di un vero e proprio giardino archetipico, così come emerge dalla descrizione del prospero orto del re Alcinoo, nella ricca isola dei Feaci. Qui la benedizione di una natura benevola e prolifica sposa perfettamente ingegno e visione estetica, e nella capacità di armonizzare uomo e ambiente si compie l’utopia di un’esistenza vicina agli dèi. Un’alta siepe delimita la sacralità del microcosmo, anche se il giardino è uno spazio privato, evidenza della ricchezza della casata. All’interno di un appezzamento cintato trovano luogo ortaggi e alberi da frutto in pieno rigoglio: peri, melograni, meli dai pomi lucenti, fichi dolci e floridi ulivi: mai la stagione rimane priva di frutti, e in un armonico avvicendarsi ciclico alcuni nascono quando altri sono già nel pieno della maturità. Non manca la vite, albero di vita, e aiole ordinate di verdure abbondanti. Il giardino è irrigato da due fonti, e ciò è sufficiente a descrivere i mirabili doni dei numi che allietano la casa di Alcinoo. Nel bilanciato equilibrio tra natura spontanea e ordine razionale si manifestano i caratteri di un locus amoenus laico e produttivo.
È stata proprio la metafora della chiusura ad alimentare i passaggi culturali legati alla poetica del giardino, soprattutto nel medioevo letterario, che si rivela popolato di cavalieri erranti nell’atto di perdersi in perigliose selve allegoriche. Attirati dall’occulto richiamo di un misterioso verziere, gli eroi spesso sono invitati a varcare una soglia simbolica e a compiere la scelta tra intelletto e stato di natura, tra istinto e ragione, per scoprire il senso profondo del viaggio, o talora l’amore. Lo stesso principio filosofico ha ispirato l’ideazione dell’orto dei semplici del monastero, seppure nel rimescolamento di codici e nel cambiamento di paradigma, non più cavalleresco ma spirituale. In questo caso l’uomo ha intrapreso un’opera di imitazione della creazione divina, nell’intento di catturare la visione edenica e intrappolarla in una dimensione umile e ridotta, eppure perfetta nell’adesione al modello. Forse non senza l’inconsapevole superbia di volere superare l’essenza libera dell’ordine cosmico, poiché l’hortus, guidato dal logos, è in grado di riprodurre la vita vegetativa in un alternarsi continuo e ininterrotto di specie.
Solo all’interno di questo spazio riconducibile a leggi razionali, così come nella realizzazione del sogno di una primavera autogenerante, il genere umano può recuperare l’antica separazione tra la perduta età dell’oro e il tempo della storia, con il suo decadimento, le sue contraddizioni, ma anche la sua irrimediabile nostalgia del trascendente.