Filosofa, docente in numerosi atenei italiani ed europei, Roberta De Monticelli è attualmente insegnante di “Filosofia della persona” presso il San Raffaele di Milano, dove ha creato un Laboratorio di fenomenologia e scienza della persona. Ha trasfuso la sua attività di studiosa e ricercatrice in un rigoroso impegno morale di denuncia del degrado del costume contemporaneo. Tra i suoi recenti libri, Al di qua del bene e del male e La questione morale.
"Mia madre mi ha spesso rimproverato di aver sempre sistematicamente rimosso tutto il mio passato, di essere per così dire una smemorata compulsiva, una sorta di macchina dell’oblio. C’è una verità profonda – anche se non forse proprio letterale – in questa accusa. In un senso è vero che l’ossessione della chiarezza devasta la memoria. Ogni snodo concettuale, ogni conquista, o almeno ogni magari illusoria gioia di aver afferrato l’essenza di qualcosa mi è costata l’oblio di mille fatti, di mille incontri, di mille scoramenti o scoperte, di tanti affetti e… di tanto sapere. Sapere di fatti, di immagini, di ritmi, di ombre, di volti, di giorni….. Ma non per colpa dell’astrazione inerente al pensare, come subito penserà chi legge. Al contrario: perché ciascuno di questi fatti, immagini, ritmi, ombre, volti, giorni avrebbe potuto diventare l’esemplare della sua idea – della sua essenza. Ma uno basta per mille, sradicato sue dalle circostanze. Perché è anche feroce, la fame dell’essenziale. Può cogliere i fiori, e sradicarli… Io credo che il filosofo abbia una vocazione contraria a quella dello storico, e può anche terribilmente soffrirne! Nulla come l’incontro con uno storico dallo spirito vivo, profondo, curioso e disposto a perdersi nell’infinito del dettaglio e delle circostanze ti fa capire quanto dell’avventura cognitiva e dunque della memoria, ma anche della vita interiore tutta intera, il lavoro feroce della chiarezza rischi di sacrificare. Da cui gli episodi di vera e propria 'desolazione' in cui l’anima del filosofo cade, di tanto in tanto, i periodi di terribile aridità e senso di vuoto… Che alcuni filosofi famosi, la cui stirpe discende da quella di Ockham – l’inventore del rasoio omonimo, ovvero del principio che bisogna moltiplicare le entità senza necessità – hanno erroneamente elevato a condizione elettiva del filosofo, quasi fosse una questione di gusti: il “gusto per i paesaggi desertici” è una frase famosa che definisce il pensiero di Quine…" .
Si è impegnata in difficili battaglie etiche, diventando anche “personaggio” pubblico: come concilia questa sua immagine col suo sentire come persona?
Il primo credo sia talmente modesto, impercettibile o sempre meno visibile – anche per mia scelta, ormai – che veramente non saprei come confrontarlo con quello che sono o sento: ce n’è veramente troppo poca materia. Ma una cosa vorrei dire, che ancora una volta è l’essenza dell’esperienza che ho avuto nella mia modesta, sempre più ridotta presenza “pubblica” (che da noi si intende soprattutto come mediatica): ho capito meglio perché Platone legava quasi inscindibilmente la sfera pubblica con quella dell’opinione. Infondata. È in questo l’essenza tragica, forse, della politica. Dico “forse” perché Socrate – l’altro io di Platone – aveva tentato la più grande rivoluzione antropologica di tutti i tempi: portare la ricerca di evidenza, di chiarezza profonda e di giustificazione o prova, di buona logica, nel discorso pubblico, farne vera discussione, e discussione sui fini, nel faccia a faccia della responsabilità che ognuno si prende di quello che afferma, che dice di fare, che fa. Questa inaudita trasposizione dell’etica della conoscenza nello spazio pubblico è la vera radice greca della democrazia moderna in ciò che ha di alto e di prezioso – non il potere del popolo, la forza della piazza.
Sembra che abbia parlato di filosofia e non di me. E invece. Nell’infinitamente piccolo ho vissuto anch’io la tragedia di Socrate, che non è la morte volontariamente assunta (quella semmai è il trionfo della virtù di cittadinanza e dell’etica politica) ma al contrario, l’impossibilità di far capire che ci si può impegnare nella difesa di una tesi, anche di una tesi etico-civica, quindi di un giudizio di valore, perché lo si ritiene vero e argomentabile, perché ci si sta sforzando di produrre evidenza, perché si cerca conoscenza. Sì, conoscenza del bene o di ciò che è meglio, anche. Ricerca di questa conoscenza, non pretesa di possederla. E invece qualunque cosa tu dica, ti arruoleranno per forza. Sei di parte, perché – si dice - il giudizio di valore è comunque di parte – perché non può esserci ragione pratica, ma solo fedi, oppure solo interessi. Questa tesi universalmente diffusa io la ritengo non solo profondamente falsa, ma anche la massima fonte di corruzione e della politica e della parte che vuole più giustizia, della sinistra. Prendere posizione non è prendere partito. Una posizione può e deve essere mostrata giusta, o abbandonata. E anche se si prende partito, ebbene se si è onesti lo si deve fare perché si crede nella verità di quel poco che si è capito, e si cerca di mostrarla agli altri, a tutti gli altri, e poi di ascoltare le loro ragioni.
“Una sorprendente maggioranza degli italiani – come lei ha detto – approva, sostiene e nutre lo scollamento tra etica e politica”…
Parto da un esempio recentissimo. Sconcertata dalla circostanza che il conduttore di una nota ed eccellente rassegna stampa radiofonica leggesse per intero – legittimandolo al quadrato – un lungo articolo di Renato Farina (Libero) sul nesso fra terrorismo e migranti, mi sono chiesta se qualcuno degli ascoltatori, alle cui osservazioni e domande è dedicata la seconda parte della trasmissione, e che in definitiva rappresentano la parte più attenta e vigile del pubblico, coloro che sentono appunto le responsabilità della cittadinanza, avrebbe almeno obiettato a questa legittimazione come “giornalista” di un uomo radiato dall’Ordine dei Giornalisti per aver confessato non solo di essere stato l’Agente Betulla, incaricato dai Servizi Segreti di discutibili indagini poco in linea con la professione giornalistica, ma anche di aver pubblicato notizie false in cambio di denari. Nessuno degli ascoltatori intervenuti ha sollevato la questione. Si può anche essere al corrente del fatto che la Cassazione ha dichiarato invalida la radiazione, ma solo perché, appena saputo che incombeva, l’Agente Betulla ha ritirato lui stesso la sua iscrizione, dunque formalmente l’atto era invalido per mancanza d’oggetto. Fatto che non cambia di una virgola le ragioni dello sconcerto – non tanto perché la persona in questione ha continuato a scrivere, prima sotto pseudonimo e poi di nuovo col suo nome, su un quotidiano, ma perché tanto i suoi lettori quanto i suoi colleghi non hanno evidentemente nulla da eccepire.
Ecco: questo fatto sarebbe semplicemente un ulteriore esempio di separazione fra l’etica e la politica nella coscienza comune, se non fosse invece che un elemento in più c’è. Io ci avevo provato, a mettermi in coda telefonica per intervenire ed eccepire. Con mia immensa sorpresa, dato lo staff solitamente eccellente di quella rassegna stampa mattutina, la voce solitamente cortese che dall’altra parte ti chiede di esporre brevemente il punto del tuo intervento mi diede in quell’occasione talmente sulla voce, e in modo talmente intimidatorio, obiettando preventivamente che i fatti erano fatti e che il conduttore di una rassegna stampa legge gli articoli che trova, che io per stupefazione sbottai che rinunciavo, ricevendomi in cambio una lode: ecco bravissima! Morale della favola? Leggete Pulitzer. “La nostra Repubblica e la sua stampa vivranno o cadranno insieme. Una stampa disinteressata… con un’intelligenza professionalmente attrezzata a conoscere ciò che è giusto e con il coraggio di farlo può preservare la pubblica virtù senza la quale il governo del popolo è una finzione e una presa in giro… Una stampa cinica, mercenaria, demagogica, produrrà nel tempo un popolo spregevole come lei stessa”.
La storia e la società milanesi, dall’illuminismo all’ umanitarismo e socialismo, all’imprenditoria “illuminata” dell’ 800, sono state caratterizzate da una linea riformatrice, ne è rimasto qualcosa?
Qui davvero ci vorrebbe lo sguardo lungo ma anche sensibile al dettaglio e alle circostanze che è tipico dello storico. È sotto gli occhi di tutti il miglioramento funzionale ed estetico che di cui Milano ha goduto sotto l’amministrazione del Sindaco Giuliano Pisapia. Ma c’è un’enorme perplessità che mi pare sia ancora aperta, e che lega le vicende milanesi a quelle nazionali. È la questione dell’Expo e del suo seguito. Qualunque siano, se si rivelano o si sono rivelati, i meriti eventuali dell’attuale Sindaco (sono rimasta all’estero per un semestre, immersa nel lavoro e senza seguire più le vicende locali), a me sembra una ferita, in linea con la cancellazione dei confini fra il lecito e l’illecito di cui abbiamo parlato finora, che quasi nessuno in questa città abbia veramente e pubblicamente obiettato al conflitto di interessi che si sarebbe venuto a creare quando il Sindaco di Milano, in questo suo ruolo, avrebbe chiesto conto al Commissario dell’Expo della parte di spesa pubblica sostenuta dalla nostra città precisamente per l’Expo, e delle relative pendenze giudiziarie, anche e soprattutto nel caso fosse personalmente al di sopra di ogni sospetto. Per il solo fatto che Ex-Commissario e Sindaco sono la stessa persona. E ancora pare opaca la gestione del dopo-Expo per quanto riguarda la sistemazione nelle aree espositive di un polo di ricerca - lo Human Technopole – di cui la ricercatrice biologica e senatrice a vita Elena Cattaneo, con altre voci isolate, come il fisico Giovanni Bignami, hanno pubblicamente e a più riprese denunciato l’intollerabile assenza di trasparenza nei metodi di reclutamento, impiego e distribuzione dei fondi governativi piovuti in base alle decisioni della politica, e non alle valutazioni competenti e controllabili delle istituzioni della scienza.
Qui indubbiamente non è più la tradizione amministrativa e imprenditoriale della società milanese in questione, ma la sua classe intellettuale, e in particolare i docenti universitari. Quali voci si sono levate pubblicamente, fra gli atenei italiani e soprattutto i molti milanesi, a difesa di Elena Cattaneo e Giovanni Bignami e a sostegno delle loro critiche, che esprimevano veramente l’abc dell’etica della scienza, riassunta nell’icastica denuncia che Elena Cattaneo ha fatto della confusione pervasiva fra i dirigenti delle istituzioni coinvolte – in particolare il direttore dell’IIT cui il governo aveva graziosamente affidato i fondi del finanziamento – fra “public calls” e “phone calls”, cioè fra bandi pubblici di concorso e telefonate private agli amici, come metodi di reclutamento.
Dunque un orgoglio c’è, e cioè che Elena Cattaneo appartiene indubbiamente all’Università di Milano. Ma gli altri?