Durante queste eccezionali calure estive, che rendono difficile la vita di tutti e condannano a magri raccolti, migliaia di aziende italiane ed europee prosciugano fiumi e mettono a repentaglio le risorse idriche più profonde. E si pongono i soliti interrogativi. Il cambiamento climatico cosa riserverà nella prossima metà del secolo? Quali strategie stanno mettendo in atto i governi nazionali per arginare l’avanzare della cosiddetta desertificazione in corso in tutto il bacino del Mediterraneo?
A livello di tecniche agricole certo è che da anni gli agronomi e gli studiosi della materia climatica insistono sull'inversione di rotta rispetto alle tecniche colturali tradizionali, cioè quelle fondate soprattutto sull’uso di concimi, irrigazione e specie esigenti in termini di apporti idrici e di dispendiose lavorazioni; purtroppo però se guardiamo il paesaggio agricolo in questi mesi, in cui le temperature toccano i 35-40 gradi di temperatura, spesso assistiamo a distese infinite di coltivazioni di mais e soia necessitanti di importanti risorse idriche per dare buone produzioni.
D’altra parte non è solo la campagna che soffre di questo caldo africano perché sono soprattutto le città e le aree metropolitane che entrano in crisi quando il perdurare delle alte temperature e il persistere dell’insolazione crea le ormai note “isole di calore”, dove le temperature salgono di 3-4 gradi sia di giorno che di notte rispetto alle cinture urbane più dotate di masse vegetali (alberature, campi aperti, spazi non cementificati). Solo durante questa stagione inizia la caccia a un posto all’ombra da parte degli automobilisti per non ritrovare roventi le loro auto dopo la sosta nei parcheggi, e così allo stesso modo la ricerca di un parco ombroso per portare i bambini durante le ore calde o perfino di locali pubblici dotati di condizionatori – così energivori – per gli anziani, che debbono acquistare alimentari e altri generi di prima necessità come i farmaci.
Qualche studioso di fenomeni globali, in relazione all’avanzare della civiltà occidentale, si sono soffermati con diversi contributi sulla questione del destino delle nostre metropoli e dei loro abitanti nel prossimo futuro e nessuno di loro vede grandi possibilità di sopravvivenza se non si prenderà coscienza dello stato delle cose. Basterebbe citare Da animali a dei, dello storico Yuval Noah Harari, che arriva spiegarci come da liberi abitatori del pianeta come i gorilla, o come le lucciole, siamo diventati homini consumens schiavi della burocrazia e del denaro, o Jared Diamond, che ci fa entrare nei meccanismi di autodistruzione volontaria delle società nel suo Collasso, saggio sul dubbio se le società contemporanee abbiano imparato la lezione dalla storia, evitando catastrofi ecologiche ed estinzioni di massa.
Senza andare troppo indietro nel tempo sarebbe bene ricordare il valore che l’uomo, da millenni fino a poche centinaia di anni fa, ha attribuito alla natura, ma in particolare all’albero, simbolo prima di tutto di una sacra comunicazione tra terra e cielo. All’albero cosmico l’uomo si rifece per costruire i suoi luoghi di culto, dai sacelli alle cattedrali, che altro non furono che riproposizioni di strutture vive in tutta la loro poderosa maestosità, cioè i boschi. Così bene ci illustra la storia degli alberi, a partire dal mito fino alla storia recente, l’autore Jacques Brosse, stimolandoci a recuperare gli archetipi della natura, quei giganti che l’uomo ha temuto e rispettato per una lunghissima parte della storia dell’umanità, poiché ne riconosceva la funzione e la necessità di conservazione per la propria sopravvivenza. Dall’albero cosmico per eccellenza, il frassino del mito nordico, esemplificato dall'Yggdrasill, fino alla Quercia, albero simbolo del mondo greco classico, fino alle conifere tutte, alberi emblema di immortalità. Ma le sacre selve vergini dell’Europa sono scomparse e quella venerabilità che era loro attribuita, proprio per far sì che non venissero profanate e compromesse in quanto indispensabili per la vita dell’umanità, oggi è misconosciuta se non derisa da coloro che scambiano i cultori di questi giganti verdi ridicoli invasati “abbraccia alberi”.
Ma si sbagliano i profanatori dell’anima delle piante, così la chiamò Gustav Theodor Fechner, filosofo ottocentesco che si ribella a coloro che si ostinano a considerare le piante un gradino più basso rispetto agli altri viventi, ponendo le piante a servizio dell’uomo. Se non vogliamo credere alla sua concezione panpsichista dell’universale animazione della natura, crediamo almeno alla scienza che supporta le sue posizioni. “Le piante si nutrono dei nostri sottoprodotti, ovvero la Co2 che noi ormai produciamo in grande quantità con tutte le nostre attività e con cui inquiniamo l’atmosfera, e utilizzano i nostri scarti che re-immettiamo nel terreno perché essi ne traggono nutrimento, trattengono l’acqua che scorrerebbe fino a travolgerci se non fosse captata dalle loro radici, assicurano quel livello di umidità che ci consente di rinfrescare le nostre dimore.
Allora si fa impellente il grido di allarme per questo nuovo e incessante “taglio del bosco” in tutta la nostra penisola che, in centinaia di città soprattutto al nord, è invasa da squadre di giardinieri e forestali che stanno depauperando tutto il patrimonio arboreo delle metropoli e non solo. Milano, Padova, Genova, Pescara, Roma e molti altri centri urbani, dai più grandi ai minori, assistono all’albericidio più devastante mai visto prima d’ora. Solo la città di Padova ha abbattuto una media di 800 alberi all’anno in questo ultimo triennio e per un confronto con un paese oltreoceano di cui si sta parlando molto in questi giorni, il Canada, a Toronto si abbatte 50 volte meno della città italiana oggi nel mirino per l'inconcepibile gestione del verde di questi anni. I gruppi di cittadini attivi a cui sta a cuore il futuro delle proprie città sono ormai pronti a tutto e si alleano per battaglie su vari fronti in difesa del loro patrimonio monumentale e che ancora aspetta di essere censito!
Perché oltre alla beffa c’è anche il danno, ovvero in Italia si dimentica che le leggi ci sono ma non vengono rispettate, o meglio dove e possibile vengono eluse. Nel 2013 una legge italiana proclama con 13 articoli tutte le norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani (L. 14 – 1- 2013 n. 10) con misure puntuali di attuazione per le Regioni, e i Comuni a cascata, proprio per rispondere prontamente agli indirizzi di politica europea e internazionale fondati sulle misure di riduzione delle emissioni di CO2 e del controllo del cambiamento climatico. Dalle misure di salvaguardia e la gestione territoriale degli standard urbanistici in tema di spazi verdi, alla promozione di iniziative locali per lo sviluppo di spazi verdi (coperture vegetali, verde verticale, recupero di spazi di risulta,incentivi per le nuove edificazioni con maggiore destinazione ad alberi e arbusti, ecc.) nonché un articolo su tutte le disposizioni per la tutela e la salvaguardia degli alberi monumentali, dei filari, delle alberate di particolare pregio paesaggistico, naturalistico monumentale e storico culturale.
Purtroppo questo rimane un auspicio per tutte le città italiane, nonostante sia stato costituito e istituito un comitato ministeriale di esperti a monitoraggio e osservazione dell’attuazione della legge sullo sviluppo del verde pubblico, con ben sette membri che relazionano ogni anno un corposo report della situazione in atto. Una situazione che dovrebbe cambiare rotta perché nonostante le azioni locali e gli smilzi equipaggi, che contrastano questo trend distruttivo del nostro territorio, il fenomeno ha ormai assunto un livello di aggressione che ha portato a intervenire anche numerose voci di intellettuali, tecnici della materia, arboricoltori, naturalisti e agronomi che si spendono attraverso attività volontarie di controllo e monitoraggio delle situazioni più gravi in atto nelle città.
Ormai la tendenza è quella di eliminare e non censire, quindi le grandi alberature – pochissimi comuni italiani hanno fatto ad oggi il censimento degli alberi monumentali come era previsto dalla legge – e di mettere a dimora piccoli alberi di quarta grandezza, si dice in gergo botanico, quindi che non superino i 4 metri di altezza a maturità, con poca o nulla cura dopo la messa a dimora, che non costituiranno neanche un centesimo del patrimonio arboreo preesistente. Tutto questo comporterà grande dispendio di denaro pubblico senza ritorni a livello ecologico, basse compensazioni di Co2, città desertificate, scorrimento veloce delle acque superficiali dopo le grandi piogge e le conseguenze a cui oggi assistiamo con sempre maggiore frequenza in queste stagioni.
Gli alberi salvano la vita … questo dovremmo insegnare a tutti i piccoli abitanti delle città perché diventino “baroni rampanti” e non portatori di asce nemiche dei nostri boschi urbani.