Il 5 maggio 1961, milioni di statunitensi attendevano davanti alle televisioni il lancio di Alan Shepard. Il conteggio alla rovescia era in corso da ore, quando il servizio meteorologico annunciò l’arrivo di un fronte temporalesco. Sarebbe passato alla svelta, dissero, e il “conto” fu sospeso nell’attesa di un miglioramento. Non appena le condizioni tornarono a essere favorevoli il conteggio riprese. Poi un altro stop. I circuiti di controllo avevano rilevato un invertitore difettoso. I tecnici s’affannarono a cambiarlo nel più breve tempo possibile. Quando tutto sembrava finalmente in ordine, ci fu un’altra sospensione. Una calcolatrice elettronica era andata in tilt ed era indispensabile sostituirla.

Il lancio aveva già accumulato cinque ore di ritardo, per un volo suborbitale che non sarebbe durato più di quindici minuti. In questo frangente Alan Shepard era sempre rimasto serrato all’interno della Mercury. In uno spazio così ristretto che, praticamente, era quasi del tutto immobilizzato, potendo muovere solo la testa e le braccia. Una situazione veramente scomoda. Di tanto in tanto gli giungeva via radio la voce di Gordon Cooper (Capcom - cioè addetto alle comunicazioni) che lo teneva aggiornato. Col passare del tempo però Shepard iniziò ad avere un problema sempre più impellente. Un problema che nessuno degli specialisti aveva tenuto in considerazione per la brevità della missione.

Alan cercò di resistere il più possibile, poi non gliela fece più e nel bunker arrivò forte la sua voce.

Gordo? disse.

Vai Alan rispose Cooper.

Mi scappa.

Cosa?.

Mi hai sentito bene, devo pisciare. Perché non avvicinate la gru e mi fate uscire così mi libero?(C’era un apposito contenitore all’esterno della White Room).

Aspetta un attimo.

Cooper si voltò verso Von Braun (Direttore del Marshall Space Flight Center e responsabile del Vettore Mercury Redstone) ma lo scienziato col capo disse di no. In effetti non c’era tempo materiale per rimettere in piedi la White Room prima della fine del conteggio, e non si poteva mettere a repentaglio il lancio rimandandolo. Alan era dentro e dentro doveva restare. La voce di Shepard si fece nuovamente udire.

«Gordo, mi dovete far uscire. Sono chiuso qui dentro da ore» .

«Wernher ha detto di no» gli rispose Cooper.

La voce di Shepard esplose negli altoparlanti.

«Maledizione Gordo… Dannazione, chiedi se la posso fare nella tuta».

Cooper: «No! No! Non farlo sai benissimo che hai numerosi sensori elettrici attaccati al corpo, se si bagnano puoi creare dei corto circuiti!»

«Bene, allora falli spegnere» gli rispose Alan.

Cooper si girò nuovamente verso Von Braun il quale, pur contrariato diede l’assenso.

«Puoi farla in giacca e cravatta Alan» gli disse Cooper.

Fu dopo queste bizzarre parole che Alan Shephard la fece nella tuta, e poi partì per il primo volo del programma spaziale Mercury della NASA. Ma si sa: quando scappa, scappa.

L’assenza di un sistema di raccolta delle urine potrebbe sembrare una grave dimenticanza, ma al tempo nessuno si aspettava che la missione durasse così a lungo. Inoltre, gli Stati Uniti si stavano giocando il prestigio nazionale in una competizione per lo Spazio con i russi, e non si potevano quindi ammettere ritardi, specialmente per “semplici” funzioni fisiologiche, sebbene prima dei voli Mercury, nel 1960, l'Air Force avesse sponsorizzato una ricerca per un sistema di raccolta rifiuti umani in una capsula spaziale.

Lo studio aveva preso in esame i dispositivi di scarico utilizzati negli aerei militari, concludendo che però non erano sufficientemente affidabili a causa delle frequenti perdite. Alla fine, si consigliò di utilizzare i dispositivi ospedalieri (cateteri) che erano adeguati e già disponibili, sebbene non fossero molto graditi ai piloti per le fastidiose problematiche che nascevano dal loro utilizzo. In poche parole, gli “urine disposal container” (UDC) esistevano ma non furono presi in considerazione dalla NASA nei test per i primi voli.

Per questo motivo anche la seconda missione, sempre suborbitale, di Gus Grissom, ne fece a meno nonostante il precedente con Shepard, anche se si racconta che qualcuno cercò di porvi rimedio all’ultimo minuto. Secondo una storia diventata popolare, Dee O'Hara, l'infermiera-medico del programma Mercury, comprò un preservativo che agganciò a un reggicalze modificato, al fine di farne un contenitore d’emergenza da far indossare a Grissom durante il suo volo. Questa storia, che si adatta alla perfezione allo spirito dell'America degli anni '50: You Can, in realtà è solo una leggenda. Infatti, per il volo Grissom indossò due paia di mutande in gomma, che secondo le intenzioni dei tecnici avrebbero dovuto trattenere l’urina tra i due strati, senza compromettere i sensori. In ogni caso Grissom non ne ebbe bisogno.

L’imprevisto di Shepherd, convinse la NASA della impellente necessità di un sistema adatto allo scopo, e per questo incaricò il Manned Spaceflight Center Suit Laboratory, diretto da James McBarron, di perfezionare il primo UDC di successo da utilizzare per le future missioni degli astronauti Mercury. Il team guidato da McBarron modificò vari preservativi, fino ad arrivare ad una forma idonea allo scopo che fu detta "roll-on-cuff". Risolta la complicazione della tenuta, passarono a studiare come espellere l'urina dall'interno della tuta a pressione. All’apparenza può sembrare una difficoltà banale, ma noi “terricoli” tendiamo sempre a dimenticare che nello spazio nulla cade, e senza gravità l'urina non scorrerebbe via dall'astronauta. La soluzione arrivò con l’adozione di una valvola speciale, che permetteva all'astronauta di aumentare la pressione all'interno della tuta durante la minzione, così da spingere il liquido attraverso il tubo unito al preservativo roll-on-cuff, fino al contenitore di stoccaggio esterno.

Il sistema UDC fu pronto per il primo volo orbitale della Mercury "Friendship 7" di John Glenn, il 20 febbraio 1962. Durante il volo, che durò quasi cinque ore, John Glenn lo usò solo una volta, riempiendo il contenitore con circa 80 centilitri di liquido. Il dato fornì nuove informazioni sul comportamento della fisiologia umana nello Spazio. La quantità misurata, infatti, era 20 centilitri più della capacità media della vescica umana. E questo non era dovuto al fatto che John Glenn avesse un fisico migliore dell'uomo medio americano, ma che nello Spazio i sensori naturali del nostro corpo, quelli che ci dicono quando devi fare pipì, sballano completamente, poiché l'urina in microgravità non riempie la vescica dal basso, e quando ti rendi conto che “devi andare”, potrebbe effettivamente essere così piena da fartela addosso prima di riuscire a scaricare nell’apposito sacchetto.

Collegato con attenzione questo dispositivo era generalmente efficace, ma non funzionava sempre a dovere, procurando non pochi fastidi agli astronauti. L’incidente più spiacevole accadde durante la missione NASA della Gemini VII, che nel 1965 passò quattordici giorni in orbita. Mentre James Lovell si sfilava la tuta, una manovra difficile e complicata per via dello stretto spazio disponibile, ruppe il contenitore di plastica per l’urina. Privo di peso il maleodorante liquido si sparse nella cabina, alzandone pericolosamente il tasso d’umidità e dando luogo a una forte irritazione alle narici e alle vie respiratorie.

Possiamo solo immaginare le maledizioni che Frank Borman indirizzò al compagno, ma ormai era inutile. Il bruciore alle mucose fu curato con l’applicazione d’una pomata al cortisone, ma non esisteva nulla al mondo che potesse evitare l’odore, e che le goccie di urina, galleggiando, si attaccassero ogni dove, anche al cibo. Sebbene fossero amici da lungo tempo, Borman non perdonò mai Lovell per lo sgradevole inconveniente. A fine missione, quando un giornalista gli chiese come si erano trovati nel restare tanto tempo nello spazio, Borman rispose seccamente che era: ... com’essere stati chiusi in un gabinetto per quattordici giorni di fila!.

Se ci chiediamo quale sia stato il primo WC spaziale adatto a tutti gli scopi, dobbiamo andare alle missioni lunari Apollo. Si trattava del Waste Management System, un nome altisonante che, in realtà, identificava un sistema alquanto semplice per l’evacuazione dei rifiuti organici, solidi e liquidi, degli astronauti. Similmente alle precedenti missioni, per urinare gli astronauti utilizzavano il preservativo roll-on-cuff, la cui estremità questa volta era collegata, tramite una valvola, direttamente a uno sfiato posto all’esterno della nave. Un sistema sicuramente non molto tecnologico per espellere il liquido nello spazio cosmico. Una volta fuori , l’urina congelava in goccioline di ghiaccio gialle, che alla luce del sole diventavano iridescenti.

Quando a un briefing con la Stampa un giornalista chiese all’equipaggio di descrivere lo spettacolo più bello che avessero visto mai nello Spazio, la risposta fu: «Con la discarica dell’urina al tramonto.». In realtà il sistema non funzionava per niente bene, oltre al fatto che gli astronauti dovevano anche superare la sgradevole sensazione psicologica, di collegare una propria parte intima direttamente al “vuoto spaziale”.

Per i rifiuti solidi il sistema era ancor più primitivo e interamente manuale. Gli equipaggi disponevano di numerosi sacchetti a forma di cappello, la cui estremità adesiva serviva a sistemarlo con sicurezza “in loco”. Il fondo era preformato in modo che le dita potessero entrarvi come in un guanto. Una volta pronto, l’utilizzatore doveva manualmente recuperare quanto stava facendo. Ma non finiva qui. Si doveva completare l’operazione prendendo alcune capsule di battericida, che erano già nel “cappello” a portata di guanto, e amalgamare il tutto per eliminare gli odori, o almeno era quello che si sperava. Il sacco poi era stivato in appositi contenitori e riportato a terra per le analisi. Tutte queste operazioni erano eseguite nella zona sottostante le cuccette, e quindi gli astronauti godevano almeno di un poco d’intimità.

I primi a utilizzare il WC manuale in orbita durante il collaudo dell’Astronave lunare, furono gli uomini di Apollo 7, che descrissero efficacemente l'esperienza. "Quando la devi fare mettiti nudo, concediti un'ora, e tieni pronti molti, molti fazzoletti". L’astronauta Walter Cunningham, aggiunse che nonostante le precauzioni, l'odore all’interno della cabina era diventato così fastidioso, che lo svegliava anche da un sonno profondo. Col tempo arrivarono piccole modifiche che lo resero più affidabile, ma ci voleva sempre una buona dose di sopportazione, e le testimonianze rilasciate da tutti gli astronauti descrissero che l'esperienza era così spiacevole, che neanche il brivido dell'esplorazione lunare riusciva a compensare.

Il primo vero WC spaziale arrivò nel 1973, quando la NASA mise in orbita la prima e unica stazione spaziale nazionale Skylab. Il Programma prevedeva l’avvicendamento di tre equipaggi, impegnati in permanenze sempre più lunghe, fino ad arrivare a un massimo di tre mesi. Il WC non era certamente un campione di bellezza, ma assolveva il suo scopo. Si trattava di poco più di un buco a forma di sedile piantato nella parete e circondato da una tenda, a cui era attaccato un ventilatore e una borsa in plastica. Per espletare le funzioni naturali, l'equipaggio usava un imbuto e un tubo di forma speciale per l'urina, mentre il sedile si adattava allo scopo di raccogliere i movimenti intestinali.

Le problematiche di tenuta e contenimento degli scarti erano sempre presenti, ma il grande volume della stazione (320 m³ rispetto ai 6 m³ della Apollo) mitigava il problema dei cattivi odori. La stazione però fu la prima ad avere a disposizione una doccia, una tenda cilindrica che andava dal pavimento al soffitto e un sistema di vuoto per aspirare l'acqua. Sebbene l’utilizzo in microgravità implicasse grande attenzione e l'impiego di tecniche speciali per lavarsi, gli equipaggi gradirono moltissimo questo “lusso”.

Con l’allungarsi delle missioni, e l’ingresso delle donne nei programmi spaziali, l’esigenza di qualcosa di meglio concepito divenne inevitabile. Non si poteva certamente continuare ad andare in giro con la biancheria intima umida e sporca, o di seguitare ad attaccarsi a dei tubi di gomma. Ciò spinse finalmente i progettisti della NASA a costruire dei servizi igienici adatti alla microgravità, considerando non solo la praticità ma anche la capacità di riciclare i liquidi, il tutto garantendo il maggior comfort possibile. Fu così che nacque il gabinetto più costoso del mondo, un WC in titanio da trenta milioni di dollari.

La prima vera toilette a zero-g fu quella utilizzata sullo Space Shuttle. Si chiamava pomposamente: the Waste Collection System (WCS), e similmente allo Skylab smaltiva i liquidi tramite un aspiratore, mentre lo stoccaggio in volo dei rifiuti solidi veniva espletato da ventole rotanti, che distribuivano le feci in contenitori che poi erano esposti al vuoto per l’essiccazione. Per quanto possa sembrare strano, l’utilizzo in sicurezza di questo WC richiese parecchie ore di allenamento. Se per la minzione vi era il “classico” imbuto, per i rifiuti solidi il foro nel sedile era molto più piccolo rispetto a una toilette convenzionale. Per questo motivo l'utente doveva essere esattamente centrato prima di darsi da fare. Per abituare gli astronauti all’uso, evitando loro di “farla fuori”, la NASA costruì un simulatore con una videocamera nel buco e un mirino per imparare a posizionarsi con precisione. Facile immaginare quante battute salaci nascessero fra gli astronauti durante le sedute di allenamento.

Nonostante l’impegno dei progettisti e il costo della realizzazione, ben 19 milioni di dollari, questo gabinetto spaziale soffrì di numerosi malfunzionamenti. Durante il terzo volo di prova dello Space Shuttle STS-3 Columbia, che partì il 22 marzo 1982 e durò otto giorni, la toilette si ruppe quasi subito, costringendo Jack Lousma e Gordon Fullerton a ricorrere ai vecchi dispositivi di contenimento Apollo, e meno male che i programmatori li avevano previsti a bordo. Il sistema si guastò anche durante il volo di Franco Malerba, il primo astronauta italiano (STS-46 Atlantis), costringendo l’astronauta svizzero Claude Nicollier a eseguire una riparazione di fortuna durante il volo.

Le anomalie continuarono fastidiosamente e ripetutamente, costringendo la NASA a rivedere l’intero progetto. La nuova versione del Waste Management System fu installata e collaudata a bordo dello Space Shuttle STS-49 Endeavour, durante la sua missione inaugurale del 1992, dimostrandosi più affidabile della precedente. Ma la spesa per la sua realizzazione era stata stellare. Quando nell'ottobre dello stesso anno il General Accounting Office degli Stati Uniti rese pubblico il costo finale del WC spaziale, trenta milioni di dollari a fronte di una spesa iniziale stimata di 2,9, i Media non persero l’occasione per sommergere la NASA di critiche, accusandola di aver sperperato i soldi dei contribuenti per un gabinetto in titanio.

L’enormità della spesa era però giustificata dalla complessità dei meccanismi, con centinaia di parti mobili per il riciclo, aspiratori e recipienti a pressione, che dovevano lavorare a contatto di “parti molto sensibili” in modo sicuro e igienico.

L’ultima generazione di servizi igienici spaziali della NASA, chiamati Universal Waste Management System (UWMS) è stata installata sulla Stazione Spaziale Internazionale nel 2020. Il nuovo sistema è costato 23,4 milioni di dollari, ed è una versione più piccola del 65% e più leggera del 40% della precedente. La stessa unità sarà installata su tutte le astronavi Orion, pronte per essere utilizzate dagli astronauti che dopo più di cinquant’anni torneranno sulla Luna con il programma Artemis. La nuova realizzazione ha tenuto conto dei feedback ricevuti dagli equipaggi della ISS, che hanno permesso la realizzazione di un WC molto più confortevole, soprattutto da parte degli equipaggi femminili.

Se i WC della NASA ci sembrano eccessivamente costosi, non si può dire che quelli russi lo siano di meno. Il modello ASU-8 della Roscosmos è costato diciannove milioni di dollari, ed è presente in due esemplari sulla ISS. Il WC era stato originariamente sviluppato per lo shuttle sovietico Buran e in seguito utilizzato per anni nella stazione spaziale russa Mir.

La cifra astronomica che la NASA ha dovuto sborsare per la realizzazione della nuova toilette non è però abbastanza alta da renderla la più costosa in assoluto. Infatti, questo record appartiene alla versione montata nello Space Shuttle, il cui costo di 19 milioni di dollari rettificato per l'inflazione ai prezzi del 2021, ammonta a circa 58 milioni di dollari. Sebbene la differenza fra i due sistemi sembri enorme, la cifra di 23,4 milioni di dollari dell’UWMS non corrisponde a quella reale. Infatti, non tiene conto delle spese aggiuntive per le riprogettazioni d’ingegneria avvenute in corso d’opera, ai rifacimenti causati da specifiche poco chiare fornite agli appaltatori, e all'aggiunta di caratteristiche non essenziali; tra cui una "lattina di caffè" da 200.000 dollari per conservare gli spazzolini da denti degli astronauti.

Attualmente i servizi igienici sulla ISS sono tre, l’ UWMS nel modulo USA Tranquility, e due ASU-8 nei moduli russi Zvezda e Nauka, l’ultimo dei quali è stato aggiunto alla Stazione Spaziale Internazionale il 29 luglio 2021. Oltre ai servizi igienici permanenti della stazione, ci sono anche quelli dei veicoli spaziali attraccati, che sono sempre due per garantire che possa essere evacuata per emergenza in qualsiasi momento. Questi servizi però sono utilizzati solo in caso di emergenza, come accadde nel 2008, quando la toilette del modulo Zvezda smise di funzionare.

Il problema degli scarti fisiologici si porrà anche quando saremo sulla Luna o su Marte. Soprattutto quando sorgeranno “necessità impellenti” mentre ci troveremo all’esterno, troppo lontani per rientrare nel modulo abitativo. A questo problema ci avevano già pensato gli americani col progetto Apollo, e possiamo essere certi che come quelle di allora, anche le future tute spaziali avranno il loro piccolo bagno privato indossabile. Un capo, che i tecnici chiamano pomposamente: “indumento di massimo assorbimento" per il "contenimento urino-fecale", che dietro al fraseggio tecnico nasconde l’utilizzo di un più prosaico pannolone. Se poi qualche curioso volesse sapere se c’è già stato qualcuno ad averla fatta sulla Luna, dobbiamo segnalare che questo record appartiene a Buzz Aldrin, che fece “pipi” nel Mare della Tranquillità, dopo aver raggiunto sulla superficie Neil Armstrong, durante la storica missione di Apollo 11, il 21 luglio 1969.

Buzz Aldrin però non si prese la seccatura di riportarsela a casa. Sulla Luna, infatti, gli astronauti non hanno lasciato solo strumenti tecnici e le loro iconiche impronte. Come turisti maleducati, hanno abbandonato scarti di ogni genere, che sono ancora li, indisturbati da oltre cinquant’anni. Un argomento, quello dei rifiuti, di cui non si parla molto, ma che in realtà era previsto dai protocolli, per recuperare spazio e peso, al fine di portare a casa il maggior numero possibile di campioni lunari.

In totale, le sei missioni Apollo scese sulla Luna hanno abbandonato novantasei sacchi di rifiuti. Questi scarti però potrebbero diventare incredibilmente preziosi. Ai profani potrà sembrare uno scherzo, ma nelle feci umane vive un intero meraviglioso ecosistema. Circa il cinquanta per cento della loro massa è composta da batteri, che rappresentano solo alcune delle oltre mille specie di microbi che vivono nel nostro intestino. Per questo motivo, quando torneremo sulla Luna, queste borse d’immondizia abbandonate saranno al centro d’un importante esperimento biologico. Per quanto ne sappiamo, la Luna è sempre stata sterile e senza vita, perché costantemente sottoposta alle sterilizzanti radiazioni solari e cosmiche. Al contrario del nostro pianeta che ha ospitato vita batterica, e molto altro, per oltre 3,9 miliardi di anni.

Esaminandole, gli scienziati potranno rispondere a una domanda che ha profonde implicazioni per le nostre future esplorazioni su Marte, e cioè scoprire se “c’è ancora qualcosa di vivo al loro interno”. Se questa ipotesi fosse confermata, e non staremo molto attenti, rischieremo di contaminare l’habitat marziano in modo irrimediabile, o, peggio ancora, di scambiarla per una biologia autoctona. Non solo, se veramente si trovasse ancora vita nei rifiuti, allora biologi e scienziati avranno anche la prova che alcuni batteri possono sopravvivere ai viaggi interstellari, rendendoli capaci di seminare la vita in tutto l'universo. Una risposta che contempla anche importanti aspetti etici e religiosi, poiché la vita sarebbe un fattore possibile a tutti i pianeti, e non un isolato caso terrestre.