Sono il vuoto, non sono diverso dal vuoto, né il vuoto è diverso da me; in realtà il vuoto sono io.
(Jack Kerouac)
Filippo Marzocchi, classe 1989, ha realizzato una serie di lavori, per questa prima personale spagnola alla Galeria Fran Reus a Palma di Maiorca, che riflettono sulla personale recente ricerca sul medium pittorico. Oggi più che mai, è necessario interrogarsi sul ruolo della pittura e della rappresentazione stessa, ritornata a gran voce, o forse semplicemente proprio perché sempre esistita, ha visto attraversare cicli a suo favore e non, a fasi alterne, soprattutto con l’avvento dei new media.
La pittura, un medium sempre presente, in un presente che sfugge. Questi i due punctum attraversati nell’analisi spagnola del giovane artista romagnolo. Osservando la serie di lavori, i differenti Untitled, occupano evanescentemente in armonia lo spazio white cube della galleria, la pittura dai toni forti e decisi compatti, blu, rosso, rosa o giallo, è stesa linearmente o “quadratamente” per campiture full. Impossibile non percepire l’eredità di padri americani di metà del secolo scorso come Barnett Newman, echi e tracce di quella che venne definita un ramo dell’espressionismo americano made in Usa: il color field painting*. Sublime e purezza trascendono qualsiasi rappresentazione per donarsi all’estasi cosmogonica di forma che diviene assoluta essenza, assoluto colore, esattamente come molto prima avevano ricercato le avanguardie di inizio secolo come il Suprematismo di Malevič.
Il vuoto è un altro elemento preso sicuramente in considerazione in questa ricerca, soprattutto guardando il grande tondo giallo Untitled – Sun che ricorda alcuni lavori di Ivan Kozaric appartenente al gruppo Gorgona. Un vuoto che sottolinea l’urgenza di ridurre, di purificare una prolificazione incontrollata di immagini ormai onnipresenti nel contemporaneo quotidiano di ognuno di noi, a partire dai social e tv.
Negli Untitled di Marzocchi la tela diviene oggetto altro, come una lavagna total white e vergine è pronta ad accogliere segni e appunti, ipotesi irrazionali di un flusso pittorico in divenire. Le pennellate iconiche, come equazioni irrisolvibili si confrontano sullo spazio del supporto e di visione, ontologicamente. È proprio l’aspetto privato di una mediazione dettata dalla ragione a interessare l’artista. Il colore inoltre è lasciato in bacinelle (Untitled – Icons) sottostanti all’Untitled rosa quadrato, come puro oggetto, come estrema sintesi di un’essenza. Come un tempo in attesa del suo accadimento presente. Il segno pittorico diviene elegante substrato inconscio, orizzonte e misurazione di un tempo eterno, ritmo, qui e ora. Un gioco ciclico, di un tempo presente che scrorre, oltre il post- postmodernismo, che ruota ironico, in red, come in Untitled – Futbol. Un gesto presente a se stesso, privo di magniloquenze decorative, ecco il senso compiuto dell’atto pittorico di Marzocchi.
Questa ricerca di purezza in pittura è una consequenza, una coerenza stilistica dell’artista, preso negli ultimi anni soprattutto nella ricerca di operazioni sul suono, l’ambiente e la performance. In Marzocchi il dato spettacolare dettato da uno star system dell’ego non interessa, quello che l’artista ricerca, pensando anche a un primo lavoro vincitore del Premio Zucchelli, dove “pitture” di carta fotografica non fissata divenivano materia pittorica mutabile al passare del tempo fino a scomparire; è la relazione con l’accadere del tempo presente. Un “adesso” complesso e fuggevole, irrisolto, mistico, ambiguo e incompleto, e per questo affascinante ed estremamente interessante da un punto di vista di ricerca critico-artistica. Ora poniamo qualche domanda all'artista.
Quanto reputi sia importante l’ambito della formazione (dalle Università alle Accademie) per un artista? Mi racconti come sono stati i tuoi anni da studente?
Inizio dichiarando di non essere stato uno studente modello, ho vissuto infatti l’Accademia in maniera molto libera, a tratti distaccandomene, ma quasi mai conflittuale. Credo che non esista una formula universale e che il percorso di ognuno sia davvero personale. Posso confermare che la mia esperienza in Accademia è stata molto utile dal momento che ho incontrato persone che mi hanno aperto molte strade di pensiero e inoltre perché ho avuto un luogo dove concentrarmi, lavorare e raccogliere stimoli. Mi ritengo comunque fortunato perché non sono rimasto incagliato nel sistema accademico, oggi il programma di uno studente tende a perdere nella qualità del tempo a favore della quantità di risultati.
Come ti sei avvicinato all’arte?
Mio padre da giovane dipingeva ed è un appassionato di fotografia, quindi posso dire che la famiglia mi ha dato molti stimoli. Fin da piccolo ho iniziato ad ascoltare tanta musica, sempre grazie a mio padre che aveva una grossa collezione di cd e cassette e mi portava anche a concerti fin da bambino; ricordo ad esempio un Heineken Jammin’ Festival a Imola dove vidi gli Underworld, fu un’esperienza. In più ho viaggiato sempre molto con la mia famiglia e ho avuto la possibilità di conoscere differenti culture, questo probabilmente mi ha influenzato molto. A dodici anni ho iniziato a studiare musica e a quattordici mi sono iscritto al Liceo Artistico.
Se dovessi stilare una top ten di opere d’arte (dal teatro al cinema alla danza alla musica, alla letteratura) quali sono i tuoi “must have”? Quali sono state e sono le tue ispirazioni?
Premetto che sono appassionato di cinema, musica e arte e mi piace conoscere sempre nuovi musicisti e registi, anche artisti, ma un po' meno, mi influenzano troppo. Ti potrei risponderei con le ultime cose che sto ascoltando: Lutto Lento, Sky h1, Kingdom, DHS, M.E.S.H., Babyfather, Awsome tapes from Africa, Pacific Rat Temple Band, Turbo Sonidero, Futuristico e anche un bel po' di corridos, bolero e bhajan. Oppure sto guardando L’isola (Kim Ki Duk), L’estate di Kikujiro (Takeshi Kitano), Il Tigre (Dino Risi); i miei immortali nel cinema sono Herzog, Haneke e Bresson.
Da artista–critico, come definiresti/racconteresti i lavori che hai scelto per l'esposizione No past No future? Titolo per altro piuttosto importante ed emblematico.
Dunque inizierei dal titolo, No Past No Future: scegliendo questo titolo ho compiuto un’azione che solitamente non faccio, ma in questa occasione mi sembrava appropriata, ovvero dichiarare una cosa attraverso la sua negazione. Ho voluto fare questo perché nonostante si tenti di permanere nel tempo presente la mente vaga sempre tra ricordi e immaginazione. Quindi mi è sembrato calzante evocare il tempo presente attraverso la negazione dei suoi “anti tempi”, passato e futuro. Tutti i lavori di questa esposizione li ho realizzati a Palma de Mallorca, città dove si trova la galleria che mi ha invitato, Galeria Fran Reus. Fran, il gallerista mi ha ospitato e ha messo a mia disposizione uno spazio dove lavorare chiamato Forn, lo studio di uno degli artisti della galleria. Fran mi ha lanciato la proposta e io l’ho colta, realizzare la mostra in meno di due settimane in un luogo che non conoscevo è stata una sfida, ma era anche molto in linea con il progetto artistico che ho attuato.
Con No Past No Future ho presentato per la prima volta la ricerca pittorica intrapresa da circa due anni, nella mostra sono presenti anche due sculture che considero concretizzazioni della stessa serie. Le pitture apparentemente sono molto semplici, sono come lavagne bianche dagli angoli smussati sulle quali sono abbozzate delle forme che al massimo mostrano due o tre colori. Quella che compio attraverso la pittura è una ricerca sulla conoscenza, più precisamente sulla comprensione di come si generano contenuti e sulla possibilità di accedere a contenuti non mediati dalla ragione. Le sculture sono un discorso ulteriore, sono oggetti che compro e tratto con la stessa vernice delle tele. Attraverso questi oggetti mi piace alludere a possibili concretizzazioni delle immagini astratte delle pitture, mettendole in relazione nello stesso spazio. Un unico lavoro si differenzia dagli altri, la serie di quattro quadri azzurri all’ingresso. In quel caso ho voluto concentrare l’attenzione sulla fruizione dell’opera e non sulla sua produzione. Si tratta di quattro quadri uguali posizionati ognuno in una direzione differente, come ad esplorare tutte le possibilità del quadrato. Mi piace l’idea che chi guarda questa installazione, attraverso il corpo o lo sguardo è costretto a scorrere lungo lo spazio seguendo il movimento della pittura. Questo lavoro è come l’inizio e allo stesso tempo la fine della mostra e tenta di comunicare direttamente al tempo presente dell’osservatore.
Che rapporto hai con la città in cui vivi?
Devo ammettere che il mio rapporto con Bologna è abbastanza pragmatico, la città fino ad ora mi ha offerto delle possibilità e sono rimasto qui per sfruttarle, inoltre qui ho dei buoni amici. Mi sono trasferito qui a gennaio scorso dopo essere rientrato dall’estero, e ho sentito che era un buon tessuto su cui costruire. Ho puntato tutto sul mio lavoro e così assieme a Mattia Pajè e Marco Casella abbiamo preso uno studio. Inoltre con Mattia abbiamo cominciato a lavorare a progetti che confluivano nella direzione artistica, questo ha portato prima a LOCALEDUE e poi all’apertura dello studio al pubblico come lo conoscete, Gelateria Sogni di Ghiaccio. Quando abbiamo aperto Gelateria eravamo molto determinati e fiduciosi del fatto che il progetto potesse essere accolto in maniera favorevole dalla città e devo decisamente ringraziare Bologna perché fino ad ora abbiamo avuto un buona risposta da tutti e molte soddisfazioni. In questo momento penso di essere arrivato alla fine di un percorso e mi sento orientato verso nuove situazioni, ho già un paio di appuntamenti pianificati sempre in Italia, poi vedrò dove porteranno gli eventi.
Una delle ultime esposizioni viste che ti ha positivamente colpito?
Hypothesis di Parreno all’Hangar Bicocca mi ha segnato. Molto bella poi Distiller a Milano curata da Bruno Barsanti e Gabriele Tosi.