Ora nel luogo dove fu crocefisso c’era un giardino e nel giardino un sepolcro
(Vangelo secondo Giovanni 19,41)
Io fu' già quel che voi sete, e quel ch'i' son voi anco sarete.
(Trinità di Masaccio, dettaglio del sarcofago, Santa Maria Novella in Firenze)
La grandezza del metodo di Panofsky non è stata ancora adeguatamente compresa. Il grande iconologo non esce mai dal soggetto narrativo dell’opera d’arte analizzata. All’interno del tema rappresentativo indaga tutti gli aspetti semantici e narrativi dell’opera quale visione e comunicazione estetica totale. Il suo sguardo resta assai libero. Non segue piste interpretative preconcette, non elude le domande di metodo essenziali come quella su quale sia il campo linguistico in cui collocare l’opera da indagare e quale sia l’uso semantico della forma e del materiale immaginale già noto ma ri-organizzato nell’opera.
Il modo migliore di valorizzare l’opera culturale-ermeneutica di Panofsky è proprio attualizzarla seguendo il suo approccio semantico-integrale. Ripercorriamo la sua analisi del tema di Et Arcadia Ego in Guercino e Poussin, ripresentando il cuore della sua indagine e chiedendoci se uno sguardo iconologico analogo ma attuale non abbia ancora qualcosa da dire su tale bizzarro e raro tema narrativo. Bizzarro per due motivi: il motto in latino sembra generare più problemi interpretativi di quanti ne possa risolvere. Un paradosso perché il motto dovrebbe recare più chiarezza delle immagini stesse sul senso della rappresentazione, e invece complica ulteriormente il quadro espressivo.
Panofsky centra con rigore l’alternativa essenziale: l’Et va riferito ad Arcadia o ad ego? Il verbo essere sottointeso va inteso al presente o al passato? E perché non al futuro, in un senso iniziatico-rituale? È la Morte che parla o un morto? Si tratta di un ricordo o di un monito? Confrontiamo le tre opere principali: una di Guercino e due di Poussin.
Nel dipinto di Guercino il protagonista è il teschio sul sepolcro. Un teschio parlante. I due pastori scoprono la Morte dentro la Natura. Una versione poetica e naturalistica del modello della vanitas, del memento mori. Nell’infanzia del mondo i due pastori scoprono la Morte. Uno di loro reagisce con melanconia. L’altro conserva un contemplativo stupore. Ma abbiamo visto veramente tutto? Non c’è, latente, un altro immaginario, un altro modulo intrinseco? C’è, e si tratta del modulo morale cattolico del “teschio parlante” come si può ancora ammirare ad esempio nella Chiesa di San Marco di Milano, dove a un vero teschio umano è giustapposto questo motto: Voi siete come Io ero. Voi sarete come Io sono. Messaggio che compare dipinto anche nella Trinità di Masaccio. Si tratta del medesimo senso narrativo del teschio del Guercino/Poussin.
Nel primo quadro di Poussin analizzato da Panofsky il baricentro si sposta sui personaggi che indicano il sepolcro appena scoperto. Il teschio appare un orpello di secondo piano mentre il sepolcro inizia ad assumere toni antiquari ed estetizzanti. Compare una donna con un seno e una gamba scoperta. Un’allusione al differente ma complementare tema della Veritas filia Temporis? Compare anche un personaggio di spalle che versa con un’anfora dell’acqua e reca una corona vegetale, tipici attributi delle divinità fluviali. L’acqua indica archetipicamente il fluire del tempo. Molti elementi mutano in questa opera rispetto alla precedente, ma il cuore narrativo resta quello del motto in latino e il senso di mistero che lo circonda.
La seconda opera di Poussin appare più articolata, composta, raffinata. La messa in scena è attenta agli equilibri compositivi, come rivelano le braccia a squadra dei due pastori inginocchiati che indicano il motto inciso sul sepolcro, come ruotando attorno al centro del sepolcro parlante, e il rapporto quadrangolare fra le due coppie delle quattro figure, due in ginocchio e le due in piedi con il capo reclinato verso il centro del sepolcro. Più in dettaglio un pastore inginocchiato appare intento a studiare il motto, l’altro si rivolge all’aulica donna in piedi, e il terzo pastore mostra una postura malinconica, con il capo reclinato e le braccia appoggiate al bastone e alla pietra. La donna è una Donna, simbolica. Se avanziamo nella completezza dell’analisi con il metodo di Panofsky non possiamo non porre la tesi che la Donna, così consapevole, meditativa e sicura di sé, sia la personificazione della stessa Arcadia. Appare infatti l’unico personaggio a non mostrare né malinconia e né stupore, come conoscendo già dal profondo il senso sapienziale del “sepolcro parlante”.
Quest’opera ci permette di slatentizzare l’altro immaginario necessariamente implicato in questo tema rappresentativo, cioè quello della sovrapposizione delle opposte polarità del giardino e del sepolcro. Dimensione semantica di origine vangelica, secondo il racconto della deposizione di Cristo. Qui però non c’è resurrezione, se non si vuole vederla a tutti costi nella vitalità anonima di una Natura che sembra indifferente, irrelata al sepolcro. Siamo invece in presenza di una coincidenza oppositorum allusiva? Difficile dirlo senza riscontri culturali esterni. Certo è che la vegetazione si eleva in corrispondenza con la centralità del sepolcro.
Queste tre opere presentano infine un ultimo loro fattore unicizzante e paradossale, di tipo strutturale, tanto evidente da non essere stato ancora indagato, dato proprio dall’antitesi radicale tra il concetto di Arcadia e il senso morale del motto. Perché viene posto questo monito drammatico dentro il Mito dell’Arcadia? Quale è stata la motivazione della genesi di tale incrocio tematico? Polemica? Ironia? Disincanto? Quale matrice culturale sorregge questa operazione innovativa? Vendetta del Barocco contro l’utopia arcadica, profondamente antibarocca?
Il Mito dell’Arcadia rappresenta l’ultimo Rinascimento dell’Italia e genererà ancora per un secolo e mezzo ricchi frutti come lo straordinario fenomeno delle Accademie, laboratori creativi e selettivi di alto livello. Eppure in queste tre opere considerate muore già il Mito dell’Arcadia. Questa tema pittorico demitizza l’Arcadia. Di questo soggetto narrativo si può dire quello che Panofsky disse del rapporto tra Dürer e il Quattrocento: supera l’Arcadia quale Eden, quale Mito dell’Età dell’Oro tramite l’utilizzo dello stesso immaginario arcadico: pastorale e naturalistico. Questa piccola rivoluzione/inversione iconologica genera chiari e definitivi effetti linguistici. Il Mito si trasforma in Convenzione. Muore la classicità e nasce il classicismo. La convenzionalità porta alla retorica (l’analogo dipinto di Giovanni Battista Cipriani), al clichè (Georg Wilhem Kolbe) e allo stilema usato romanticamente (Honorè Fragonard). I grandi maestri dell’Iconologia vanno presi sul serio dal punto di visto metodologico. Vanno imitati, non solo citati.