Per quattro anni Penelope durante il giorno avvolge il filo per farne un gomitolo e tesse la sua tela e poi, durante la notte, la disfa, consapevole di possedere un’arte che le darà il potere di non soccombere all’imposizione di accettare nuove nozze. Sarà lei, attraverso l’uso accorto di quel filo a governare la sua vita, a tener fede alle sue scelte, a custodire con cura la certezza che Odisseo farà ritorno, a credere che l’amore non può soccombere alla crudeltà della guerra.
È vero che Penelope parla di “tramare inganni” riferendosi al suo agire, ma si tratta di un inganno frutto di sapiente consapevolezza, una scelta di libertà pur nell’ambito limitato e limitante del suo universo di donna, un comportamento nel quale entrano in gioco l’astuzia e l’intelligenza doti che la pongono sotto la protezione della dea Metis.
Quella della tessitura è un’arte di origine divina: Atena stessa ne ha fatto dono a Pandora, la prima donna e, tramite lei, a tutte le donne.
È un sapere femminile fatto di abilità e destrezza che proviene dalla sapienza della dea nata dalla testa di Zeus, un sapere che pone la sfera del privato, all’interno del quale si dipana la vita di madri, mogli, figlie e amanti dell’antichità, in un ambito decisamente sacro, che parla di una visione del mondo nella quale l’intreccio dei fili è metafora di una difficile e impegnativa opera di conservazione della vita per consentire a dei, eroi e semidei di essere attori della politica e soprattutto della guerra.
È un fare lento, cadenzato, con un ritmo e una ritualità che ricollegano la tessitura ad un ricchissimo immaginario metaforico.
Donne e Divine sono accomunate da questa “tèchne” : Calipso tesse con la sua spola d’oro proprio come fa la bella Elena, o la regina dei Feaci, e Circe nella sua casa “di pietra liscia” è intenta a tessere una grande tela mentre canta con voce chiara e si prepara a mettere in atto la sua magia metamorfica. Atena stessa è un’abile filatrice.
La trama dei fili che intrecciano l’ordito rimanda al tessuto simbolico di esistenze condotte in una dimensione silenziosa, appartata, fatta di ascolto e di pazienza, lontana, anche se non estranea, agli scenari di guerra che sono prerogativa tutta maschile.
Fare, disfare, annodare e riannodare è in fondo la storia e l’immagine della vita, è l’abilità che permette alle donne di ricongiungere suggestioni, emozioni, parole e silenzi, colori e toni a formare, come altrettanti fili, il tracciato nel quale le parti si mischiano a creare il tutto dell’esistenza.
Quando ci capita di “perdere il filo del discorso” o ancor più “il filo delle cose” ricordiamoci di questa conoscenza antica e preziosa che certo ci appartiene.
Quando ci sorprendiamo a dire che “la vita è appesa ad un filo” non dimentichiamo di rendere omaggio alle antiche, divine Signore che ne sono custodi.
Con le loro spole d’acciaio le Moire tessono meticolosamente l’“amaro filo” che governa il destino di ognuno. Cloto ha il compito di filare (il verbo greco klòthein), Lachesi assegna la sorte (làchos la parte che spetta ad ognuno), Atropo è “colei che non si può voltare”.
Platone ce le mostra sedute in circolo, ciascuna su un trono, vestite di bianco, con il capo coronato di bende e le dice figlie di Anànke la “Necessità” ineluttabile che a sua volta tiene sulle ginocchia il fuso.
Sono loro, le tre figlie della Notte, che assegnano il bene e il male ai mortali fin dalla nascita, loro, le temibili Filatrici, come le chiama Omero, che dipanano l’intera esistenza all’interno di un disegno nel quale passato, presente e futuro sono indelebilmente impressi sull’arazzo del destino, e ogni cosa è prevista fin dall’origine: a noi spetta leggere il racconto del quale siamo ad un tempo protagonisti e spettatori. Si comprende così la stretta vicinanza di attribuzioni che unisce talora Moira ed Ilizia la dea che sovrintende al parto identificata dai Romani con Giunone Lucina.
Non è forse un filo che lega la madre alla sua creatura? Un filo che unisce, che nutre, un filo al quale è affidata la capacità di passare dal buio alla luce, di compiere il viaggio per approdare ad una nuova esistenza. Forse è un filo magico della stessa natura di quello che Arianna dona a Teseo per permettergli di attraversare il labirinto e di uscirne: un filo d’amore che aiuta ad orientarsi, a vincere il male, ad affrontare il pericolo e a ritrovare sempre la via; forse è questo il filo rosso che andiamo cercando per tenere unite le nostre identità e non smarrirci nel dedalo della quotidiano.
La filatura del fato è un’immagine ricorrente nelle mitologie: dalle Norne della tradizione germanica alla dea Nirriti dei Veda.
Dall’Asia minore alla Siria si trovano monumenti in cui compaiono figure femminili con fuso e conocchia. Artemide, Latona, le Nereidi e le Cariti sono tutte divinità che hanno a che fare con questa arte muliebre.
Insomma, come dice Valeria Andò nel suo bel libro L’ape che tesse [1] “certo è che nella cultura greca, così come in molte altre culture non europee e orientali a filare l’esistenza individuale dalla nascita alla morte è una donna”.
Duttile, leggero, flessuoso eppure potente il filo ha una lunga vita.
Di lui si servono gli incantesimi delle fiabe, mentre il fuso e la tessitrice sono spesso tramite di sortilegi. Il filo è la traccia che permette di seguire il percorso iniziatico, di districarsi in trame misteriose.
Cura e dolce tenerezza guidavano il filo nel cucire gli abiti battesimali con i quali i nuovi nati venivano presentati al mondo.
Un elegante filo si lega attorno al prezioso involucro che custodisce il dono, messaggero di amicizia o perdono.
Amore e speranza per intrecciare il filo-nastro tra i capelli della sposa in una sorta di magica rete nella quale accogliere pensieri e attese.
Tracciati di bellezza nei fili colorati che intersecano i lunghi capelli delle donne indiane: memoria di antichi rituali.
Un filo tiene uniti i grani del rosario fatti scorrere da mani pazienti capaci di percepire la presenza del Divino.
Sutra in lingua sanscrita è il filo che traccia il reticolo dei capitoli nel libro della creazione.
C’è il filo della memoria che crea intrecci di storie e conserva legàmi e lacci che congiungono i pezzi della nostra vita.
Il filo del discorso cerca di incontrarsi con altri fili di differenti colori a formare trame di pacifica comprensione.
Un intreccio di fili crea il mirabile albero della vita disegnato sugli antichi tappeti afghani prima che la follia della guerra fermasse sul telaio della storia immagini di dolore e distruzione.
Un filo di voce per pronunciare l’ultima, segreta e accorata parola: solo l’ anima riesce ad udirla. Un filo di voce per dire la paura del buio quando si teme che dall’oscurità possano ascoltarci e ghermirci i fantasmi del nostro cuore.
Le quiete stanze risuonano dei pensieri lieti di una fanciulla che ricama con prezioso filo le lenzuola che accolgono la sua attesa d’amore o la candida tovaglia che festeggerà le sue nozze. Ha a che fare con l’accoglienza e la condivisione il filo che si fa tessuto per incontrare l’altro. È generoso il filo di lana lavorato per regalare a chi ci è caro il nostro pensiero affettuoso, è la pietà che cuce il sudario e dà conforto a chi piange.
Il filo è silenzioso compagno delle monache che tracciano luminose visioni sui sacri paramenti a celebrare la gloria nei cieli, e come un filo incantato, le loro voci salgono in alto per tessere le lodi del Signore.
Un fil di fumo segna il tragico amore di Butterfly.
Come un filo si srotola il soffio del ney, il flauto di canna dal suono profetico e la danza ha inizio, si diffonde e si fa purezza di movimento nella spirale che non ha inizio né fine.
Come un filo si può afferrare la coda dei sogni del primo mattino e tirarla come la cordicella di un aquilone per rientrare nei paesaggi dell’anima là dove vengono filate le storie che raccontano la nascita del mondo.
Come attraverso fili luminosi si intrecciano le parole poetiche degli antichi inni omerici la cui etimologia li ricollega alla tessitura attraverso il verbo hyphainein “tessere”.
C’è un filo logico al quale si chiede di dare ordine a pensieri confusi, a grovigli di dubbi e incerte opinioni e qui emerge lo stretto, intimo legame della tessitura con l’intreccio narrativo nel quale le parole si intersecano per dare luce al ricamo del racconto.
Le parole si dipanano come un filo fatato capace di disegnare mondi e destini, si srotolano sul tappeto dell’immaginazione, si intrecciano fino a farsi testo ovvero tessuto essendo entrambi questi vocaboli figli del verbo latino texere che rimanda ai più svariati intrecci: inganni, tele, corone e ghirlande di rose, parole, voci umane che si dispongono al canto e persino cristalli che si riuniscono a formare la roccia.
Le parole gravide di emozioni e di memoria accolgono e nutrono nel proprio corpo i saperi che, come un ombelicale cordone, le uniscono alla conoscenza situata là dove “ …. tutte le cose sono infilate come una collana di perle su un filo” secondo quanto afferma il divino Krishna nella Bhaga Vadgita.
Le parole hanno ascendenze potenti e lontane, hanno un’origine sacra che si conserva nel mito che è sempre rappresentazione di una creazione, le parole sono le custodi di un’attesa che, come quella di Penelope, è fiducia nella forza delle nostre radici e delle nostre speranze di un ritorno all’isola felice. Le parole sono fili nel tessuto del tempo.
A cura di Save the Words®
[1] Valeria Andò, L’ape che tesse, Saperi femminili nella Grecia antica, Carocci editore, Roma 2005