Pareva che a quell’ora in paese fossero tutti a casa a pranzare, invece, all’improvviso, vedo un uomo uscire da un vicolo e venirmi incontro. È tarchiato e panciuto, con lunghi capelli corvini raccolti a coda e tiene qualcosa tra le mani che subito riconosco come una caraffa di ceramica dipinta.
“Buongiorno - chiedo - sa dirmi dove si trova la tomba della Regina?”. Lui, che già si trova a pochi passi da me: “La direzione è quella – risponde con voce profonda indicandomi un boschetto alla sua sinistra - purtroppo i segnali si sono un po' persi. La natura in questi ultimi anni s’è ripresa un po' tutto, anche la tomba, ma se te prima mi fai andare a prendere il vino poi ti ci accompagno io volentieri laggiù”. Accetto immediatamente accennando un sorriso.
È stato così che ho conosciuto Antonio, indigeno di Sorano, paese di origine etrusca interamente costruito nel tufo. Nel corso dei millenni la località è andata via via modificandosi, nuove abitazioni sono state scavate nella rupe, altre costruite sopra a quelle antiche e dalla sovrapposizione continua delle varie epoche ne risulta oggi un intricato labirinto di cunicoli, tombe, cantine e locali, molti dei quali franati o così profondi da diventare praticamente inaccessibili.
Antonio ha sempre amato molto il suo paese, lo conosce bene. “Fin da bambino ho imparato ad esplorare questi luoghi e recentemente - mi racconta - passando da una botola nella cucina di casa ho trovato delle grotte inviolate dove i miei antenati tenevano il vino”. L’entusiasmo per la scoperta è visibile nei suoi occhi e ora alimenta la mia curiosità. L’accesso alle vecchie cantine è oggi possibile anche da un’altra parte, nella zona degli orti, ed è costituito da una apertura pressoché invisibile scavata alla base della parete di tufo. Dentro questo anfratto, per anni usato come ricovero per gli attrezzi, si apre un secondo passaggio protetto da una porta rudimentale. Attraversare quel passaggio stretto è come entrare in un’altra dimensione. La discesa è subito ripida e incute un certo timore. Si scende lungo una scala vertiginosa fatta di piccoli gradini scavati nella pietra viva e in un attimo si viene avvolti dall’oscurità. Antonio non usa torce, preferisce sfruttare la luce naturale fino a quando è possibile. Ma dopo brevi attimi l’oscurità si fa così intensa che ci si sente smarrire. Seguo Antonio a tentoni, goffamente, non so assolutamente dove mi stia portando per questo provo un misto di curiosità e inquietudine.
Avverto però anche una rassicurante sensazione di calore - là sotto in effetti l’aria è densa e fa più caldo che fuori e anche l’oscurità, man mano che ci si abitua, non fa più paura. Giungiamo alla fine della scala – dopo aver contato novantotto gradini!- e subito mi volto a cercare l’entrata: appare lassù, come una piccola fessura luminosa sospesa nel buio. Antonio nel frattempo parla da solo, cerca dei fiammiferi, impreca tastando il terreno alla cieca. Poi, improvvisamente, ecco che qualcosa si accende, è un mozzicone di candela e lo spazio - o forse sarebbe meglio dire l’antro - rivela tutta la sua maestosità. Ci troviamo in un tempio rupestre, ci sono vari vani collegati tra loro e colonne scolpite a bassorilievo sulle pareti e si vedono ampie campiture affrescate anche se visibilmente deteriorate. Alle nostre spalle tre enormi botti, alte almeno due metri ciascuna, troneggiano addossate alla parete e paiono vibrare a causa della luce che proietta le nostre ombre deformate. Tutto intorno, sparsi, attrezzi da lavoro, un vecchio tavolo, bottiglie e altre caraffe di ceramica dipinta.
Parliamo sottovoce ma per effetto del luogo, le nostre voci vengono continuamente smorzate; nonostante lo spazio, stranamente, non c’è eco, tutto viene assorbito dal silenzio, tenebroso e solenne. Antonio, che ha recuperato dei bicchieri, sta spillando del vino dalla botte centrale, sorride e subito me lo offre. Bevo quel vino chiaro, fresco e asprigno e guardo il suo volto vagamente illuminato che sbuca dall’oscurità come un'orrida testa decapitata eppur parlante. I suoi occhi scuri e lucenti, incorniciati dalla massa corvina dei capelli, sarebbero piaciuti a Rembrandt, pensavo, mentre svuotavo il secondo bicchiere e mi preparavo al terzo porgendolo vuoto al mio generoso cantiniere.
Il suono di ogni travaso e il torpore dato dall’alcol cominciavano a darmi alla testa, riportandomi le immagini di Tous les matins du monde, un raffinato film francese di qualche anno fa nel quale il protagonista, un arcigno maestro di viola da gamba all’epoca di Luigi XIV, si recava due volte al giorno in cantina per approvvigionarsi del vino necessario ai pasti. Anche lui procedeva passandolo dalla botte alla caraffa e da lì lo versava in una ciotola di legno. Ognuno di quei passaggi aveva un suono preciso che diventava parte inscindibile dell’esperienza estetica e sensoriale del bere. E anche per me, lì, nelle profondità della montagna di Sorano era così. Forse addirittura qui si andava oltre, perché si sentiva che questi gesti semplici e antichi usati per trattare il vino insieme al luogo dove venivano compiuti diventavano la chiave per entrare uno spazio di armonia senza tempo, Lì dentro ci si sentiva più vicini all’origine di tutto. Eravamo nel ventre della terra, in un luogo non diverso da quello da cui la vite aveva estratto i suoi succhi. Il cerchio era completo.
Antonio insiste e mi invita a provare un’altra botte, un vitigno più antico e aromatico con un invecchiamento particolare. Brindiamo ripetutamente per motivi sempre più futili e cominciamo a ridere per un nonnulla. “Ma com’era il vino degli etruschi? - gli chiedo curioso cercando inutilmente di mantenere un contegno serio - “Era rosso, forte, molto forte - mi risponde fissando la candela quasi completamente consumata - e aveva una densità maggiore, un po’ come quello dei greci antichi. Infatti era normale allungarlo con l’acqua. Oggi è tutto molto diverso, anche il vino si è adeguato ai nostri tempi. E mi passa il bicchiere pieno fino all’orlo. Viene il momento di tornare e io sono al sesto bicchiere, non ho nessuna idea di dove sia la scala per risalire. Intravedo solo la piccola luce dell’uscita lontana e sfuocata.
Antonio rabbocca con precisione la caraffa e vede che barcollo ma subito dice di non preoccuparmi, facendomi poi cenno di seguirlo. La candela si spegne e come per magia le botti scompaiono allo sguardo, per qualche istante il buio è totale. Ci incamminiamo e tutte le emozioni che stavo vivendo là sotto cominciano a stemperarsi gradualmente lasciando spazio allo scandire dei nostri passi. Antonio mi precede e nella luce crescente vedo che il vino ogni tanto esce dalla caraffa, tracima e cade sui gradini in terra battuta e questa cosa mi commuove perché ha il sapore dell’offerta, un rituale di ringraziamento. Ma ora nessuno parla più.
Dall’esterno proviene già il fragore di alberi mossi dal vento e si sente il suono delle campane del paese. È giunto il tempo di lasciare la montagna e ciò provoca in me una strana malinconia, un senso di perdita struggente: come si stava bene là sotto! Ma faccio appena in tempo a percepirla perché in un attimo sono fuori. La luce e lo spazio aperto mi investono, stringendomi in un doloroso abbraccio.