Emozionante, mozzafiato, magnifico. Sono gli aggettivi che esprimono le mie sensazioni rispetto al progetto The Home of My Eyes curato da Thomas Kellein al Museo Correr di Venezia come evento collaterale della 57° edizione della Biennale di Venezia. Shirin Neshat, uno dei maggiori artisti a livello internazionale, porta in mostra 26 ritratti provenienti dalla sua serie fotografica The Home of My Eyes (2015) insieme al suo nuovo video Roja (2016).
L’installazione è davvero molto particolare: nella Sala delle Quattro Porte al terzo piano, alla presenza di una Madonna gotica, quasi una madre ancestrale, ci sono fotografie in bianco e nero sulle quali l’artista è intervenuta con una calligrafia Farsi come in altre famose serie quali Women of Allah (1993-1997) e The Book of Kings (2012). “The Home of My Eyes raccoglie 55 ritratti di donne e uomini di differenti generazioni in modo da creare un arazzo di volti umani che rende omaggio alla ricchezza e alla diversità della ricca storia culturale dell’Azerbaijan”, ha affermato Shirin Neshat.
Commissionato da YARAT per l’inaugurazione del nuovo edificio per le arti contemporanee The Home of My Eyes ritrae persone dell’Azerbaijan (separato dall’Iran solo nella prima parte del 19° secolo) diverse per etnia, religione, età, cultura, genere ma simili negli abiti e nella posa su uno sfondo nero e in particolare nella gestualità delle mani raccolte come per pregare. “A partire dal mio primo viaggio e poi in quelli successivi in Azerbaijan nel 2014 sono rimasta colpita da quanto fosse simile al mio paese natale, l’Iran; e quanta della nostra storia in comune fosse ancora evidente nei volti della gente così come nelle architetture tradizionali, nella musica, nella letteratura e in molti riti cerimoniali. Pertanto la mia esperienza in Azerbaijan è stata qualcosa di molto diverso rispetto alle mie recenti commissioni, che mi hanno portata principalmente in Medio Oriente in particolare in Egitto e Qatar. Qui a Baku mi sono sentita stranamente a casa, in contatto con il mio passato”, Shirin Neshat.
Pertanto il lavoro della Neshat non si è concentrato solo sul fotografare le persone ma anche sul catturare le emozioni umane; del resto conosciamo bene la sua capacità di guardarci dentro, di capire le nostre emozioni e sentimenti, di fornirci l’opportunità di vedere il mondo dal suo punto di vista stimolandoci ad andare oltre le apparenze quotidiane. “Non sono solo ritratti ma racconti visuali di una cultura”. Così questa serie esplora le voci dei soggetti fotografati: durante la produzione infatti Shirin Neshat ha parlato con questi soggetti della loro identità culturale e del loro concetto di casa. I testi presenti sulle foto sono stati composti dalla Neshat a partire dai racconti delle persone fotografate insieme ai poemi di Nizami Ganjavi, un poeta iraniano del 12° secolo vissuto in quello che oggi è l’Azerbaijan.
L’intero progetto è incentrato sul concetto di patria. Nel caso di The Home of My Eyes l’artista riflette sulle differenti esperienze di patria attraverso i racconti dei soggetti fotografati, mentre invece nel video Roja, riflette su alcuni suoi incubi personali, sulla sua esperienza di vivere in una cultura straniera come quella statunitense. Roja (2016) è parte di una trilogia di video installazioni dal titolo Dreamers (gli altri due video sono Sarah (2016) e Illusions and Mirrors (2013) con protagonista Natalie Portman, già premiato in occasione della Biennale di Montreal del 2014, che esplorano il mondo dei sogni delle donne. Ognuno di questi tre video installazioni ruota attorno a una protagonista femminile il cui racconto resta in bilico tra sogno e realtà/conscio e subconscio. Roja, basato sui sogni e ricordi personali della Neshat, ripercorre la nostalgia di una donna iraniana per la sua patria. Con una lente surrealista e un racconto non lineare Roja da forma al desiderio di ricongiungersi con la “casa”, con la “madre” con la “terra madre” che sebbene sembri all’inizio andare a buon fine in realtà diventa alla fine un percorso demoniaco e terrificante. Per l’artista la madre è la sua ultima connessione con l’Iran. “Vedevo mia madre comparire dapprima come un puntino a grande distanza, così io correvo verso di lei e lei correva verso di me. Quando eravamo vicine non riuscivo più a fermarmi e mi rendevo conto che non era mia madre ma un mostro”.
Opere quindi con una forte componente personale che diventa però espressione di una condizione esistenziale generalizzata dell’identità, sicurezza, appartenenza in un mondo globalizzato dove la mobilità (in senso lato) e l’incertezza sono delle componenti centrali. Un progetto davvero interessante ed emozionante in linea con gli obiettivi della Written Art Foundation che supporta “quegli artisti il cui lavoro apporta culture e valori diversi dai nostri al fine di ispirarci ed educarci a promuovere uno scambio pacifico e un’idea di cittadinanza mondiale”. Un nuovo mondo che parte dell’Arte.