L'elogio delle passioni, in mostra al Grand Palais di Parigi fino al 31 luglio, oltre a essere un capitolo di storia dell'arte e della scultura, presenta i tormenti dell'animo, i sentimenti ardenti, le emozioni inconfessabili, i deliri, le esaltazioni, le sofferenze dell'esistenza, il terrore della morte. Tutto ciò che è dentro, che si sente ma non si vede, ci appare fatalmente davanti agli occhi nelle grandi sale sugli Champs-Elysées per dirci come siamo, senza darci possibilità di scampo.
Auguste Rodin taglia nel marmo o forgia nel bronzo le tragedie della condizione umana, le ingrandisce, quasi le sublima, rendendole epiche. Con 250 sculture che esplorano il percorso dell'artista e un altro centinaio uscite dalle mani delle generazioni posteriori influenzate dalla sua opera, l'esposizione celebra i cento anni della morte di Rodin, mostrandoci tutto il suo infinito universo creativo, ciò che lo rese celebre ai suoi tempi e ciò che ha avuto un ruolo negli anni successivi, da Picasso, a Brancusi, da Moore a Giacometti.
Certo Rodin, nei suoi anni giovanili, non si sarebbe mai aspettato questo successo universale, nel tempo e nello spazio. In una Parigi al colmo dell'urbanizzazione e con una straordinaria profusione di statue che andavano ad adornare le strade e le piazze, lui errava in vari atelier, modellava la creta per altri scultori, sopravviveva alla meno peggio fronteggiando la povertà. Ma leggeva, e leggeva molto: Victor Hugo, Baudelaire, ma anche Virgilio e Dante Alighieri, in particolare l'Inferno, che teneva sempre a portata di mano, in tasca o sul comodino. "Rodin è animato dalla passione", spiega la curatrice della mostra, Catherine Chevillot. "Percorre un'epoca attraversata da mutamenti tecnologici enormi. In una società in cui nasce l'industria e che passa dalla carrozza all'aeroplano si capisce bene la sua volontà di ritrovare l'interiorità dell'uomo".
Per afferrare ciò che è nascosto dentro ognuno di noi, il giovane Auguste non si rivolge soltanto agli scrittori. Sarà Michelangelo il suo maestro, "il grande mago" come lui lo chiama, a cui andrà a chiedere di svelare i suoi segreti durante un lungo viaggio in Italia. Ed è nell'unione tra la perfezione classica e le incertezze tumultuose della coscienza che si fa strada il suo genio creativo, non certo tra le avanguardie della nuova scultura che stavano cominciando ad apparire, ma non più tra gli artisti della vecchia generazione. È lui che ridà vita alla scultura scoprendo che anche il corpo trasuda emozioni, non solo il volto. Rodin non cerca più la bellezza e la perfezione, ma indaga la natura, quella umana, enfatizzandone pregi e difetti per mostrarne la vera essenza.
Così accetta con grande interesse la commissione del Ministero delle Belle Arti per realizzare una porta monumentale ornata di bassorilievi che raccontano la Divina Commedia. Un'occasione irripetibile per lui quell'universo di personaggi del bene e del male, che gli permettono di sondare l'intera gamma dei sentimenti dell'umanità. Era il 1880: il suo nome, ora che aveva 40 anni, cominciava finalmente ad essere conosciuto anche al di fuori degli ambienti artistici e le sue condizioni economiche volgevano ormai verso l'agiatezza. Per oltre 20 anni lavorerà a quella porta, che sarà per lui una fonte continua di ispirazione; ispirazione che farà nascere centinaia di bozzetti e sculture, un'armata di uomini e donne gravati dal peso di vizi e peccati. Sopra di loro l'immagine del Pensatore, forse lo stesso Rodin, che li osserva con lo sguardo perduto. Quella porta da lui modellata sarà colata in bronzo per la prima volta solo dopo la sua morte (ora è conservata al Museo Rodin), ma molte di quelle figure ebbero una vita propria diventando parti di altre sculture, ingrandite o ridotte, forgiate in pietra, in marmo o in bronzo.
Eccolo, dunque, quell'universo di amore e morte con quei corpi contorti che si aggrovigliano gli uni con gli altri. Una luce sinistra illumina il volto di Ugolino, il notabile pisano chiuso in una Torre per aver tradito la città, mentre guarda i figli morenti, la bocca semiaperta in attesa del momento in cui placare la sua fame. Se il racconto di Dante è crudo e commovente nello stesso tempo, la versione bronzea di Rodin è ancora più spietata: Ugolino si trascina a quattro zampe, come una bestia, le sue membra nude si confondono con quelle dei figli. Il corpo è teso, il volto disgustato mentre guarda il più piccolo sotto di lui, che reclina la testa per non incontrare il suo sguardo, forse sperando in un atto di pietà. Questo canto dantesco sarà uno dei primi ad accendere la fantasia dell'artista, subito dopo aver avuto l'incarico per la Porta dell'Inferno.
Oltre a Ugolin et ses enfants, molte altre immagini rievocano il viaggio fantastico del sommo poeta lungo il percorso della mostra al Grand Palais, a cominciare da Les trois ombres, personaggi di difficile interpretazione che Rodin aveva inserito sulla sommità della Porta. Solo in un secondo momento ne ha ricavato il gruppo monumentale autonomo in gesso, esposto nella mostra del centenario. Anche Celle qui fut la belle Heaulmiere, immagine di una vecchia, - i seni cadenti, il corpo raggrinzito e magro, solo un lontano ricordo della figura che ha scatenato passioni carnali -, nasce dalle continue sollecitazioni della Divina Commedia e trova la sua fonte nella vecchia scarnificata tra i dannati nella parte sinistra della Porta.
Più che i personaggi aumentavano nella mente di Rodin, più il suo atelier cresceva fino a diventare un'azienda. Intorno al 1900 almeno una cinquantina di persone lavoravano per lui, dai plasmatori ai fonditori, ma aveva anche segretari e modelle, alle quali veniva chiesto di girare nude, così da poterle osservare non solo durante la posa, bensì in momenti di quotidianità, per afferrare attitudini spontanee e movimenti naturali dei muscoli. Nel frattempo aumentavano anche gli incarichi, privati e pubblici: lui reagirà come un vero imprenditore arrivando a gestire ben sei atelier. Ormai tutta Parigi reclamava Rodin e molti notabili e nobildonne volevano essere immortalati in un busto che portasse la sua firma.
Alla mostra incontriamo, tra l'altro, Victor Hugo, nel suo Buste heroique. Lo scrittore, però, aveva un carattere burbero e si rifiutava di posare. Pur ammettendo Rodin nella sua abitazione, non lo degnava mai di uno sguardo; tollerava solo che lo guardasse mentre lui rifletteva, seduto in poltrona. L'artista fece schizzi rapidi per poi modellare nell'atelier. "Sono arrivato ad eseguire la scultura, ma ho avuto molte difficoltà", confesserà più tardi, "Me la sono cavata come ho potuto".
Un'altra la storia della statua per il cinquantenario della morte di Honoré de Balzac, affidata a Rodin dalla Società dei letterati francesi. Al Grand Palais vediamo il grande gesso che fu presentato e rifiutato al Salone del 1898: una grande testa con una capigliatura leonina che si appoggia su un corpo avvolto in una vestaglia. Sarà uno scandalo, uno dei molti che hanno accompagnato la vita dell'artista. Tra i critici c'è chi definì la scultura una statua ancora imballata, oppure un rospo in un sacco. In più, negli anni in cui la Francia si divideva sull'Affare Dreyfus, clamoroso caso di spionaggio della Terza Repubblica, la maggioranza dei difensori del Balzac di Rodin parteggiava per Dreyfus. L'artista, che non voleva avere niente a che fare con la politica, si riprese la sua scultura, restituì i soldi del pagamento e non volle più mostrarla. "Se la verità deve morire il mio Balzac sarà distrutto dalle generazioni future", si difese Rodin. "Se invece la verità è eterna, allora vi dico che la mia scultura farà molta strada".
Un posto a parte merita Les bourgeois de Calais, opera "teatrale" che immortala i sei cittadini che si offrirono come ostaggi agli inglesi perché non occupassero la loro città. Le dimensioni, i gesti, le espressioni, sono scenografiche; i sentimenti di determinazione e abnegazione enfatizzati fino a mostrarne l'eroismo anche a chi non conosce la loro storia. D'altra parte un po' teatrale era anche lui, Rodin, grande e grosso, con quel barbone e gli occhi penetranti. Per non parlare del suo "ego" spropositato. "È la fotografia che mente e sono io che ho ragione", ebbe il coraggio di rispondere a chi gli faceva notare alcune esagerazioni rispetto a quella "verità" che lui pretendeva sempre di raccontare nelle sue sculture. A giudicare dall'influenza che ha avuto sugli artisti successivi, fino ai contemporanei, forse aveva davvero ragione lui.