Più che ritirato dalle scene, Ivano Fossati si è sfilato con destrezza ed eleganza da un ingranaggio discografico ossessivo e “seriale” in cui non poteva riconoscersi: lo ha fatto anche (soprattutto, forse) per salvare il proprio artigianato in forma canzone, perché rimanesse lì a rivendicare ogni singolo passo di una vita spesa ad amare la musica … che, sia chiaro, è sempre stata in primis una questione personale.
Dalla parte del pubblico, ripercorrere oggi quel cammino significa averne piena coscienza, manifestare spirito di scoperta e quindi uscire dai percorsi obbligati e “non pensanti” imposti dal mercato e dalle celebrazioni da “reality”. L’unica strada insomma per capirlo e amarlo davvero. Perché facile è imbattersi nelle sue canzoni, ascoltarle con piacere (immenso) ancora di più, viverle da dentro però, in quest’epoca di playlist frenetiche, è più che mai una scelta. Bisogna sintonizzarsi con il “tempo” di chi le ha scritte, che non c’entra col periodo storico ma con uno spazio interiore, profondamente umano, intimo e per certi versi solitario.
Fossati salutava il suo pubblico un lustro esatto fa, nel 2012, con un tour che nelle intenzioni e nei modi era più una festa che un addio, lasciando un baule, anzi un forziere di dobloni d’oro (40 anni di musica!) a parlare per sé. Tra i tantissimi gioielli rilucenti ce n’è uno di fondamentale che il 22 aprile scorso ha compiuto 25 anni: Lindbergh. Lettere da sopra la pioggia (1992), sintesi magnifica della poetica di “viaggio” dell’artista, pista di atterraggio e di decollo insieme, punto di osservazione del mondo, fra storia, presente e cupi presagi futuri. C’è cielo, c’è mare, ci sono strade sterrate e di asfalto, c’è spostamento fisico e della mente, c’è tradizione e modernità. Un’opera che nel cinquecentenario della scoperta dell’America celebra il viaggio “inverso” compiuto dall’aviatore statunitense che nel 1927 volò senza scalo da New York a Parigi a bordo del monomotore battezzato Spirit of Saint Luis: Fossati esce volutamente dalle rotte “comandate” per concentrarsi su imprese che hanno nell’uomo, nel suo animo semplice e complesso, audace perché incosciente, la risposta a quesiti mai posti. È un modo di leggere l’umanità e di sperare in essa, attraverso il singolo e le sue singolari doti.
Musicalmente il disco Lindbergh (1992), come il dedicatario del titolo, compie una “trasvolata” perfetta sopra un percorso sonoro e di ricerca iniziato diversi anni prima, da Ventilazione (1984) a Discanto (1990), mettendo insieme le diverse tradizioni alle quali un linguaggio cantautoriale forte di una grande personalità e nel pieno della propria maturità di volta in volta si rivolgeva. L’album quindi raccoglie l’AOR intriso di jazz di Ventilazione, il meticoloso lavoro sul ritmo in un’ottica etno-folk di 700 giorni (1986), i profumi “world” di La pianta del tè (1988) e l’eleganza “antica”, mediterranea e di confine (fra epoche ed emisferi) di Discanto. Il tutto trasportato in una dimensione con un’identità precisa che impiega la melodia - raffinata e ammaliante non meno che diretta - come veicolo (o “velivolo”) principale di ricezione del grosso bagaglio di “indumenti” appartenenti alle culture vicine e lontane, per tempo e per luogo, che “cela”.
Lindbergh è comunque un disco che rappresenta anche un “porto di arrivo” per lo staff che raccoglie attorno a sé e che contribuirà ad alcuni passi decisivi, fino a quel momento non contemplati, nella carriera di Ivano Fossati. Intanto è da segnalare la presenza del figlio Claudio, per la prima volta alla batteria e alle percussioni in un lavoro del padre, poi l’inizio della preziosa collaborazione con l’ingegnere del suono Marti Jane Robertson, che guarda in direzione dei cantautori americani e di un certo jazz/rock – aspetto che si sente eccome pur nel ricco e variegato amalgama – , e infine la scelta di condividere la produzione con l’amico e collaboratore di vecchia data Beppe Quirici.
È grazie a questo clima di perfetta intesa umana e musicale che prenderanno vita due album simbolo di tutto il panorama italiano di dischi dal vivo di sempre: Dal vivo volume 1 – Buontempo (1993) e Dal vivo volume 2 – Carte da decifrare (1993), catturati durante il tour di Lindbergh in due magiche serate al Teatro Ponchielli di Cremona e, cosa più unica che rara per quelle che sono le cattive abitudini dei discografici, senza alcun overdub (sovraregistrazione) o manipolazione successiva, ciò che si sente è ciò che è avvenuto in quelle notti di musica, come Fossati aveva preteso da subito (fino ad allora aveva sempre rifiutato di registrare album live anche per questo motivo).
Tornando all’album da studio, a livello sonoro e di sperimentazione, importantissima è anche la presenza del percussionista indiano Trilok Gurtu, fautore di una ritmica e di un “metalinguaggio” che fonde le proprie tradizioni con il jazz, il quale avrà ancora più “voce in capitolo” in Macramè (1996), cooperando ad avvicinare l’artigianato di Fossati ad atmosfere da world music che rimandano a Peter Gabriel (in quel disco di fatto suona anche il fedele bassista del musicista inglese Tony Levin). Ad aprire la scaletta mozzafiato di Lindbergh è forse il pezzo più noto, assurto alla fama pure per essere stato adottato qualche anno dopo come inno dell’Ulivo (cosa che fra l’altro non ha mai visto troppo partecipe Fossati): La canzone popolare. Un trascinante riff di tastiere con ascendenze “folk” italiane, ben sostenuto dall’indole bandistica della parte di batteria, mette insieme immagini private con l’afflato corale del ritornello “Alzati che si sta alzando la canzone popolare/ Se c’è qualcosa da dire ancora/ Se c’è qualcosa da fare”: è un inno, c’è poco da fare, ma alla nostra canzone, e quindi di tutti. È qualcosa che in un certo senso, con una diversa “andatura”, porta avanti il sentimento espresso da Fossati alla “musica leggera” in Una notte in Italia, capolavoro incluso in 700 giorni.
La successiva La barca di legno di rosa (Un gran mare di gente) è introspezione che arriva dall’osservare (come fosse Lindbergh dall’alto del suo cielo) condizioni umane differenti ma legate le une alle altre, un susseguirsi di visioni poetiche che in un clima “visionario” raccontano molto bene la realtà: “Passa una barca di legno di pino/ Con sopra un gendarme, con sopra un assassino/ E i loro pensieri sono legati insieme/ I loro pensieri gettati in catene/ In fondo al mare”. La musica ha sonorità world e di folk celtico nella bellissima coda strumentale. Il terzo brano, Sigonella, è dedicato a un luogo dimenticato da Dio e alla sua gente: il nome è quello di una contrada del comune siciliano di Lentini (SR) che nella Seconda guerra mondiale ospitò una pista per gli aerei da guerra e dopo divenne un vero e proprio aeroporto militare (ancora oggi). Ballad che è un crescendo musicale e testuale di emozioni, alternando colori cupi ad aperture che poi ripiegano in un limbo sospeso. L’oboe delle parti strumentali si fa spazio fra i tappeti di tastiere come una voce di solitudine e speranza insieme. La Madonna nera è cantautorato sopraffino sorretto da ritmi etnici che incrocia due storie e un solo protagonista: un uomo che non riesce a raggiungere la sua amata che lo stava attendendo perché s’imbatte in una processione religiosa e aiuta i fedeli a risollevare la statua di questa Madonna nera (ripresa forse da certe tradizioni del sud, sia Italia che America) caduta nel pantano. Un testo pieno di simbologie che è metafora della spaccatura fra passato e presente, fra tradizioni che ci rappresentano e allo stesso modo ci confondono e ci bloccano.
Il disertore è la ballata antimilitarista Le déserteur di Boris Vian con la traduzione italiana del testo fatta da Giorgio Calabrese. Un manifesto umano toccante che nella voce di Ivano Fossati, che qui si accompagna da solo con la chitarra senza nessun altro musicista, diventa sentimento puro, annullando i confini storici del racconto. Mio fratello che guardi il mondo è tra i capolavori assoluti della musica italiana, una canzone che parla agli emarginati - della nostra terra così come di tutte le altre - e lo fa con cuore vero e un testo e una melodia che scavano sotto i pregiudizi fino a far vedere una luce: “Se c’è una strada sotto il mare/ Prima o poi ci troverà/ Se non c’è strada dentro il cuore degli altri/ Prima o poi si traccerà”. Il tessuto del brano è l’emblema del fantastico connubio di sound che il “volo” di Lindbergh riunisce, con una magnifica linea di chitarra classica suonata da Fossati stesso che canta e parla come se avesse le parole. Notturno delle tre, l’ennesimo colpo maestro, chiama in ballo la cultura latinoamericana in una milonga-jazz nella quale viene descritta una storia di seduzione quasi con le tinte di un giallo; si tratta però di un brano che nella bellezza sinuosa e negli accenti della musica “dondola” una sensazione di solitudine e di malinconia.
Poca voglia di fare il soldato sembra una romanza di inizio Novecento che a un certo punto si affaccia sulle scogliere irlandesi col magico solo di tin whistle: il tema già bene espresso nel titolo è trattato con una dolcezza che disarma e apre il cuore. Ci sarà (Vita controvento) è il rock di Fossati che va a testa alta, senza concedersi cliché e graffiando con classe: il pezzo è stato dato qualche tempo prima anche agli Stadio che ne hanno fatto una loro bella versione nell’album Siamo tutti elefanti inventati (1991). Nelle liriche una visione profetica molto veritiera dei danni che mezzi di informazione e religione causeranno al mondo. Ed ecco a siglare un disco perfetto, la canzone “eponima”: Lindbergh. Praticamente un monumento. Essenziale e ricchissima, una poesia di musica e parole, un dialogo solitario dell’anima che attraverso la fantasia ci restituisce il personaggio che dà il titolo a tutto il lavoro: “Non sono che l’anima di un pesce con le ali/ Volato via dal mare per annusare le stelle/ Difficile non è nuotare contro la corrente/ Ma salire nel cielo e non trovarci niente”, e ancora, “Dal mio piccolo aereo di stelle io ne vedo/ Seguo i loro segnali e mostro le mie insegne/ La voglio fare tutta questa strada/ Fino al punto esatto in cui si spegne”. Ma quel viaggio continua, a tutt’oggi. Grazie infinite, Ivano Fossati.