Di un poeta, di un pittore, di un artista o di un personaggio in genere, magari a noi particolarmente caro, si è spesso portati, o a scinderne completamente la biografia dall’opera, magari per non esserne delusi, o a approfondirne la vita, cercando, attraverso una sorta di immedesimazione, di appropriarci più profondamente del suo messaggio. A volte, la biografia sembra attagliarsi perfettamente all’opera, o, invece, esserne in contraddizione, o rivelare lati oscuri e insondabili. È anche vero, però, che spesso la critica o l’agiografia tessono degli stereotipi banali e fuorvianti; in questo caso un’analisi più approfondita ed equanime può offrirci un quadro più veritiero, o almeno svelarci lati nascosti illuminanti.
È quello che sta facendo il Museo Casa Pascoli di San Mauro, con la sua direttrice Rosita Boschetti. In particolare, la studiosa ha approfondito alcuni controversi aspetti della vita dell’autore di Myricae, come l’assassinio del padre e il suo rapporto con il femminile. Aspetti tanto più importanti, perché molto usati e abusati per crearne un facile e scontato cliché. In Omicidio Pascoli, il complotto, la Boschetti ha raccolto ed evidenziato in un libro documentario il coacervo di interessi, risentimenti, invidie, che ci illuminano anche sulla situazione della Romagna, nel periodo postunitario. Ruggero, il padre del poeta, descritto dal figlio come “una figura quasi ieratica, un santo”, in verità era uomo di potere, ex sindaco del comune di San Mauro, malvisto dai suoi dipendenti per il carattere e i modi bruschi e autoritari, e amministratore di quei Torlonia, che erano una delle più ricche e influenti famiglie di latifondisti d’Italia. Inoltre, su di lui pesava la pericolosa nomea di “voltagabbana”, perché, da mazziniano ortodosso era passato alla parte liberale, compromessa con la monarchia sabauda. Se a questo si aggiunge che c’era chi, pur professandosi repubblicano intransigente, agognava sostituire il Pascoli padre nella sua carica di amministratore Torlonia, ecco che il cerchio si chiude e si spiega anche la connivenza dei sammauresi. Denunciando i mandanti e i sicari, infatti, avrebbero potuto essere additati come conniventi con quella fazione “moderata”, che accettava l’Italia monarchica, in una Romagna dove prevaleva un repubblicanesimo intransigente, stoico e coerente, ma non privo di infiltrazioni di facinorosi violenti e anarcoidi.
L’idealizzazione fatta da Giovanni nei confronti del genitore, in realtà, nascondeva la necessità di lenire quella ferita traumatica che poi condizionò tutta la sua vita. E qui viene “ad hoc”, un’altra pubblicazione del Museo Casa Pascoli, Pascoli innamorato – la vita sentimentale del poeta di San Mauro, sempre a cura di Rosita Boschetti e sempre con quel taglio documentario che ci permette di scoprire i volti e le confessioni delle donne amate o solo vagheggiate dall’autore dei Canti di Castelvecchio. Il poeta, di fatto, non volle o non riuscì mai, nonostante i tanti tentativi, a superare quel senso di colpa che gli sarebbe derivato dal sovrapporre alla figura di padre sostitutivo delle sorelle orfane, quella di marito, con una propria compagna ed una famiglia che avrebbero occupato la maggior parte della sua sfera affettiva.
E il binomio “amore e morte” segna anche la sua prima delusione amorosa, l’innamoramento per quell’Erminia Tognacci, sua dirimpettaia, morta a soli 17 anni per un incidente stradale: il suo calesse, a causa del ghiaccio si era ribaltato provocandole lesioni mortali. “Proprio bella! Anzi, una delle creature più belle della nostra terra – come la descrisse un’amica - alta, slanciata, elastica. Il suo viso era lungo, modellato bene come quello di una statua antica. La carnagione era pallida. I suoi occhi scuri profondi, risaltavano di più sul bianco della carnagione ed erano in contrasto al biondo della massa dei suoi capelli … possedeva un carattere molto riflessivo , forse un po’ troppo mesto”. Inoltre, la ragazza aveva un dono che costituirà sempre per Pascoli un elemento di profonda seduzione, l’arte del canto, con una voce squillante e modulata che incantava tutto il vicinato.
Questo primo amore era stata un’esperienza profonda e coinvolgente, una vera “cotta”, come dicevano i coetanei sammauresi, che però diffidavano Erminia a illudersi di fidanzarsi, lei di modeste origini e cultura, con uno studente universitario prossimo a diventare professore: “Mi vuole tanto bene! - replicava - E poi mi parla in un modo che non saprei ripetere. Nessuno parla così!” E infatti l’intesa tra i due era sfociato addirittura in una promessa di matrimonio. La tragica fine del loro idillio fu per “Zvanì” un trauma immedicabile, che immortalò nei mesti versi de La Tessitrice dei Canti di Castelvecchio: “[ …] Piango e le dico: Come ho potuto, / dolce mio bene, partir da te? / … E piange, e piange – Mio dolce amore, / non t’hanno detto? Non lo sai tu? / Io non son viva che nel tuo cuore.// Morta! Sì morta! Se tesso, tesso / per te soltanto; come, non so; / in questa tela, sotto il cipresso, / accanto alfine ti dormirò”.
E più avanti, un’altra morte ferirà l’animo del poeta, quella di Clementina Marcovigi, sorella di un suo amico riminese e a cui, pur essendosene innamorato, non aveva ancora avuto il coraggio di dichiararsi, come si evince da questa lettera indirizzata, appunto, all’amico: “Nei giorni scorsi ti scrivevo una cartolina piena di sciocchezze e tralasciavo quello che era in cima a’ miei pensieri e in fondo al mio cuore, tralasciavo di domandarti nuove di quell’angelica creatura! … Ell’era del mio passato nebbioso una figurina emergente nella luce; ell’era il capo più puro, più amabile, più amabile, più soave che io intravedessi quando mi volgevo, con l’occhio del pensiero, indietro”.
E queste mortifere esperienze, furono poi intramezzate da tutta una serie di speranze frustrate, di desideri nascosti, di aneliti abortiti, di amori impossibili, come quelli per una novizia e per un’allieva. Oppure, spinto dalla disperazione e dal bisogno, (non dimentichiamo che per poter concludere il matrimonio delle sorelle aveva bisogno di cospicue “doti” e in più i fratelli lo assillavano con richieste di denaro), fu sul punto di contrarre matrimonio con una lontana parente che era il contrario di ogni suo ideale di donna e allora: “Addio giovinezza poesia amore gloria!!!”. Fortunatamente, alla fine, ebbe il coraggio di rompere, ma questo sfortunato anello di una lunga catena di fallimenti lo portò ancora di più a rassegnarsi a fare da padre ad Ida e Maria, in un nido, apparentemente sereno, ma lacerato da insofferenze, rancori e frustrazioni sentimentali e sessuali: “Mi sono quasi evirato … Ho avuto degli amoretti … ci ho rinunziato. Ma le battaglie ci sono state, dentro di me, e durano a esserci, ancora … le ultime schioppettate”, è lo stesso senso di frustrazione che lo spingeva, come scritto in una lettera al fratello Raffaele, a frequentare le case di tolleranza “per necessità”.
La critica pascoliana si è ultimamente arricchita di un’interessante antologia di contributi critici raccolti in un testo L’Era Nuova - Pascoli e i poeti d’oggi, a cura di Andrea Gareffi e Claudio Damiani, dove, fra gli altri interventi, Donatella Bisutti, poetessa, narratrice e critica letteraria, nel suo Pascoli, omosessuale inconsapevole, ci dà un’ulteriore interpretazione della sessualità pascoliana: “Probabilmente Pascoli fu un omosessuale inconsapevole, come doveva succedere spesso quando l’omosessualità era fonte di ignominia e di esclusione sociale. Credo infatti che anche per Gadda e per Montale, per confidenze raccolte da persone che furono loro vicine, si possa formulare la stessa ipotesi. E i sintomi furono gli stessi: un più o meno malcelato timore del femminile , esorcizzato ed evitato in molti modi. Una repressione di pulsioni 'proibite' che si può immaginare causasse una forma di profonda insicurezza, di timore di fronte alla vita, il bisogno di una protezione femminile che eludesse il sesso, oppure di una solitudine che era in realtà un moto di difesa dai sentimenti più coinvolgenti … Ipotizzare un’omosessualità inconsapevole potrebbe gettare una nuova forma di luce su molti aspetti psicologici, poi sublimati della vita e dell’opera pascoliana ...”.
Tanti sono dunque gli interrogativi e le ipotesi sul conscio e l’inconscio pascoliani, ma la sua desolante vita sentimentale fu alla fine illuminata da un grande, platonico amore, quello per l’“Ignota”, Emma Strozzi, sposata col pittore Vittorio Corcos, e madre di 6 figli. Si videro solo fuggevolmente e quasi senza volerlo, per timore che un contatto diretto potesse turbare la bellezza di quel loro alato rapporto, solo epistolare, ma talmente intimo e appassionato da far scrivere ad Emma: “Se potessi chiedere alle fate bellezza, ricchezza, gioventù, cultura … io sposerei subito Giovanni Pascoli; e sarei la sorella di Mariù ...”. L’innamoramento si spinse tanto avanti da fare progettare alla donna di prender casa vicino alla villa Pascoli a Castelvecchio, anche solo per vedere Giovanni da lontano, ma il poeta lasciò sfumare questo, che considerava un avvicinamento pericoloso, per le probabili reazioni della sorella Maria, che già gli aveva osteggiato altri idilli e perché avrebbe anche potuto infrangere quell’aura di idealizzazione quasi mistica che aveva suggellato un rapporto che, in effetti, così, poté durare fino alla morte del poeta: “Sì: gli occhi li vedo, o Sirena, / né so di quale luce pur sono: / cilestri com’alba serena? / notturni com’eco di tuono? // Li vedo, ma come tra un velo, / nel sogno che lucido appare / mi sembrano stelle del cielo / sommerse nell’onda del mare: // del mare che ride e che piange / con labile moto / nell’ansio suo frangere a margine ignoto. // La voce, sì, l’odo o Sirena; ma quale n’è il suono non sento: / gorgoglio di gracile vena? / Sospiro di morbido vento? / Lo sento, ma dentro la romba / del sogno, che s’agita fosco: / mi sembra un cantar di colomba / fra l’ampio stormire del bosco: // del bosco che splende e che s’ombra / con fragile moto / nell’ansia penombra di turbine ignoto”.