Se il conflitto portante del dramma colloca Antigone e Creonte agli estremi di un'irriducibile dialettica, è nei profondi risvolti storico-politici che ne va ricercata la chiave; introdotto da Antigone (vv. 7-8, 22, 26-30), il motivo della sepoltura di Polinice sottende, infatti, lo scontro in atto nell'Atene di V secolo a.C. tra ordine regale e politico, che sul terreno della legislazione funeraria spesso si giocava.
Rivendicando il diritto/dovere di onorare il fratello, Antigone consolida la propria identità di Labdacide e rinnova l'adesione agli imperativi del sangue. Nelle sue parole, il lessico della philia (atto a designare le molteplici forme di relazione, che obbligavano i contraenti allo scambio di mutui doveri e alla reciproca fedeltà) si alterna stabilmente a quello della syngeneia ("consanguineità") e limita la cerchia dei "suoi" a quanti difendono la legittimità della continuità dinastica. Il ricorso alle "leggi non scritte" (vv. 450-457) vuole giustificare una disobbedienza e rivestire di sacralità i precetti della tradizione aristocratica, ancora operanti in quella forma orale che riservava alla nobiltà la prerogativa della loro interpretazione a tutela dei privilegi di classe.
Disarticolandola dalla syngeneia, invece, Creonte riveste la philia di una valenza prettamente politica; per lui, un diverso criterio di elezione/esclusione subordina ogni legame a quello dato dall'essere membri di una comunità di uguali, fondata sul primato della norma scritta (vv. 182-190), e vincola il conferimento delle esequie al dovere di onorare come "amici" i difensori della patria e di castigarne come "nemici" gli assalitori. Creonte proibisce di omaggiare Polinice (vv. 198-208, 284-287), rievocando i provvedimenti di ataphia ("non-sepoltura") storicamente adottati dalla città contro traditori e sacrileghi, strumenti di lotta istituzionale quando diretti a colpire i casati. Innalzando Eteocle a campione della "bella morte" (vv. 194-197, 209-210), egli consacra le scelte di una democrazia che mirava a ridurre l'allestimento privato delle cerimonie funebri, convertendo le competenze dei clan in mansioni riservate allo Stato; a contraddire l'esaltazione cultuale dell'individuo, promuovendo un'impostazione collettiva delle celebrazioni; a convogliare la rievocazione dei defunti in una glorificazione della polis cui era riservata la facoltà di estendere a tutti i cittadini eroicamente caduti quella fama immortale che era stata beneficio di pochi.
Condanna sia, allora, per Antigone che vive "in obbedienza a leggi proprie" (vv. 821, 875). Condanna sia per il rito da lei azzardato, che interferisce con le regole della città (vv. 245-247, 249-258, 395-396, 402, 404-405, 423-431); che ella "di propria mano" si vanta di aver compiuto (v. 900) e di voler reiterare (v. 43), ma che realizzato "di persona" è per Creonte atto di trasgressione (v. 306) e per le guardie motivo di denuncia (v. 429). Agire "di propria mano" è divenuto crimine ed evoca un tempo in cui "di propria mano" si compivano orrendi massacri; così Creonte e il coro accennano al fratricidio (vv. 143-146, 170-172). Come in altri drammi, l'universo del genos è assimilato al passato di brutalità che nell'immaginario greco aveva preceduto l'istituirsi della polis, e la cui rievocazione dice la necessità di superare l'antica società tribale. Funzionale alla propaganda ateniese, la tragedia gioca sull'ambivalenza di aima come "parentela" e "assassinio", facendo del sangue che fonda la famiglia un elemento votato a versare sangue o ad essere versato: per Creonte, è "d'identico sangue" Polinice scagliatosi sui suoi (vv. 198-202), lo è Eteocle caduto per mano del fratello (v. 512).
Eppure, Antigone e Creonte subiscono un identico destino di sconfitta. Dove trovare, pertanto, le ragioni del declino che investe anche Creonte, rendendolo simile ad Antigone?... rivelando il suo essere non "sovrano", ma "uomo", perdente perché colpito negli affetti più privati, dimentico di ogni ritegno nel gridare pubblicamente il suo dolore? A dare le risposte potrebbe essere Ismene, sorella "minore" dal ruolo in apparenza marginale, che ancora non si è menzionata.
In Ismene, come in Creonte, il richiamo agli orrori del genos si accompagna alla volontà di chiudere col passato. Ella incarna la memoria sistematicamente negata dalla sorella ed elenca le ragioni che le impongono di staccarsi dai vincoli degenerati cui Antigone, persa nel non-ricordo dei suoi silenzi, resta ancorata. Alla vaghezza cui Antigone ricorre negli appelli ai propri philoi, nell'accenno a Edipo di cui tace la qualifica di “padre” (v. 2), nell'omissione del fratricidio, Ismene risponde citando le infamie legate rispettivamente al padre (vv. 49-52), alla madre (vv. 53-54), ai fratelli (vv. 13-14, 55-57); alla reticenza di Antigone che chiama genericamente "mali" (vv. 2, 6, 10) gli affronti subiti dalla città e le sciagure originatesi da Edipo, Ismene oppone l'alternarsi di autos ("stesso") e cheir ("mano") a rimarcare la piena responsabilità di Edipo nel proprio accecamento (vv. 51-52), di Eteocle e Polinice nel reciproco assassinio (vv. 14, 56-57).
Ciononostante, diversamente da Creonte, Ismene conserva gli usi tradizionali della philia, ancora sovrapposta alla syngeneia. Fedele al sangue a dispetto e al di là delle perversioni di cui i "suoi" si sono macchiati, ella cerca di risvegliare nel sovrano la percezione degli eccessi del suo agire, ricordandogli la sacralità del vincolo che lo lega al figlio e che l'intransigente applicazione del suo decreto rischia di travolgere (vv. 568, 570, 572); attirando l'attenzione del re sulle nozze mancate di Emone (promesso sposo di Antigone), Ismene gli palesa la possibilità che il perseguimento dei propri obiettivi e il deprezzamento della consanguineità da lui promosso si ripercuotano contro di lui e il suo governo, distruggendo l'unica alleanza di sangue che egli rispetti come perno della vita familiare e pilastro dello Stato (vv. 634, 639-647, 661-662).
Sta sulla soglia del palazzo Ismene (v. 526), non pienamente fuori dove la convoca Antigone (v. 18), non del tutto dentro dove Creonte impera. Si radica nel genos Ismene, detta da Creonte "d'identico sangue" rispetto alla sorella (vv. 488-489) e per questo condannata a condividerne la sorte; eppure, sa proiettarsi nel futuro e aprirsi al nuovo della polis da cui viene poi assolta per voce del sovrano (v. 771). La sua è la grandezza di chi guarda con lucidità la propria storia senza la pretesa o l'illusione di potersene mostrare differente, di chi si lascia interrogare anche dagli aspetti più oscuri e detestabili del proprio vissuto e se ne fa trasformare, di chi ritorna ad abitare il mondo imparando ad elaborare nuovi sensi d'appartenenza.
Troppo tardi Antigone si arrende alla memoria degli scandali da cui è nata (vv. 857-866), delle colpe fraterne che le hanno inquinato la vita (vv. 869-871). E se a tratti nel delirio del commiato rimpiange nozze e maternità negatele (vv. 813-816, 867, 876-877, 891, 917-918), non c'è incertezza nelle sue ultime parole: mai si sarebbe immolata per un marito o un figlio perché altri avrebbe potuto averne, mai si sarebbe sottratta agli obblighi verso il fratello, insostituibile da quando Ade accoglie padre e madre (vv. 905-912). Incatenata al suo essere "sorella" prima e più ancora che "figlia", inflessibile nel difendere un vincolo che più di altri si radicava nel sangue, ella si esclude dalla modernità di un contesto politico progressivamente stabilitosi sul disgregamento e la manipolazione del dato biologico, e riorganizzatosi su criteri più specificamente istituzionali. La verità solo sfiorata sulle proprie origini non la strappa alle sue ossessioni e così Antigone si consuma in un gesto improduttivo che null'altro replica se non le antiche catastrofi, e prende il suo posto nella storia di automutilazione e autodistruzione di una famiglia malata, in cui un insano ripiegarsi del sangue su se stesso ha sostituito il regolare compiersi della procreazione, generando vergogna e oscenità.
Troppo tardi Creonte intuisce la propria follia. Ottenebrato dal desiderio di cancellare ogni compromissione col passato, ha finito per misconoscere l'identità propria e del proprio Stato; il rifiuto dei vincoli che tramite la sorella Giocasta (madre e sposa di Edipo) lo saldano ai Labdacidi, la durezza dell'editto con cui ha calpestato le relazioni che l'hanno autorizzato ad emanarlo - è al comando grazie ai "legami di famiglia coi defunti" (vv. 173-174) - la caparbietà con cui sottovaluta che Antigone è "figlia della propria sorella" (vv. 486-487), si sono riversati in una politica ottusa, incapace di vedere nel sangue un'eredità sostanziale alla polis e nella marginalizzazione delle parentele la condanna al declino collettivo. Ed ora tra i “suoi” riesplode quella violenza che credeva confinata in un tempo lontano, che ha ricordato per scongiurarla, da cui si è astenuto (sostituendo la lapidazione di Antigone con l'incarcerazione a vita) per distinguersi dai nemici e non macchiarsi degli stessi crimini (vv. 773-780, 889-890). Così, è un gesto "realizzato di persona" quello con cui Emone si uccide (vv. 1175-1177). È a un tale gesto che ricorre la sposa Euridice (v. 1315), dandosi la morte nel segreto del palazzo (vv. 1247-1256), rivendicando l'esistenza di un confine oltre il quale l'azione politica diventa ingerenza e la pretesa di dettare regole sopruso; quando, colpita nell'essere madre, scompare al mondo anche come regina, perché non esiste lutto dell'oikos, "della famiglia" (vv. 1187, 1249) che non riguardi anche la società.
Forse Sofocle sperava non fosse troppo tardi per la sua città. Egli rivolgeva il suo monito all'Atene del 442 a.C., quella di Pericle e del consolidarsi degli istituti democratici; ma anche quella che impregnava del retaggio culturale aristocratico gli aspetti costitutivi dell'ideologia civica (cittadinanza e autoctonia), facendo del sangue e della discendenza il fondamento dei valori che meglio interpretavano la consapevolezza ateniese di appartenenza alla polis. Non erano gli anni turbolenti che avrebbero accolto l'Elettra ed egli invitava alla moderazione attraverso il dissenso di Ismene, che anticipa la più tarda eroina senza averne l'urgenza; quasi un'Elettra in fieri Ismene, che non deve ancora compiere la violenza definitiva, ma che già ha intuito cosa del passato va dimenticato e ricordato per rifondare un'idea di comunità.