Un tempo, a Svalbard, arcipelago norvegese del Mar Glaciale Artico, si andava a caccia di balene, renne, orsi, foche. Poi, fu la volta del carbone. Nel 1906, a Spitzbergen, la più grande delle isole, John Munroe Longyear costruì un villaggio, facendone una stazione estrattiva. Ancora negli anni Venti, il regno del carbone, quello con le case colorate appollaiate sulla roccia, si chiamava Long Year City. Per raggiungere la miniera della Store Norske Spitzbergen Kul Kompanie, incastonata nella montagna a centinaia di metri sul livello del mare, i minatori si servivano di una funicolare rudimentale, un carrello senza riparo legato a un canapo.
A Long Year City c’era la teleferica, il telegrafo Marconi, la luce elettrica, l’ufficio postale e un villaggio con casette in legno ben arredate. La più bella era quella della società carbonifera. Oggi il vecchio villaggio di minatori si chiama Longyearbyen. Le montagnole di carbone e i carrelli per il trasporto dei minerali fanno ancora parte del paesaggio, interrotto qua e là da vecchie rotaie divelte.
Longyearbyen è il capoluogo delle Svalbard, regno di tundre, fiordi, ghiacciai, del salix polaris, della betulla nana, del papavero giallo, di foche, trichechi, urie, gabbiani tridattili, procellarie artiche, gazze marine, orsi, volpi, renne, cani polari. Tutt’intorno, il mare ricoperto dal pack. Nonostante i venti meridionali, vi domina un clima rigidissimo, con temperature che possono raggiungere i quaranta gradi sotto lo zero. Il permafrost è ovunque. Il suolo, perennemente ghiacciato, è l’ideale per lo stoccaggio sotterraneo al freddo tanto che tempo fa qui è stato creato un deposito per lo stivaggio delle sementi, a rischio di disastri naturali, guerre, conflitti, provenienti dalle tante banche genetiche del pianeta.
La costruzione della grande cassaforte nordica è stata finanziata dal governo di Oslo, che ne è proprietario. La struttura, tre stanze ad alta sicurezza situate alla fine di un tunnel di centoventicinque metri, è stata scavata nella roccia di arenaria, nel cuore della montagna artica, a centoventi metri di profondità. In caso di black out elettrico, ciò che rischierebbe di mandare in tilt i sistemi di refrigerazione, gli ambienti rimarrebbero comunque gelati. Salvi i campioni, salve le sementi, salva la loro attività metabolica.
Gelo autoctono a parte, l’ulteriore raffreddamento della caverna di Svalbard è stato in cima ai pensieri degli ingegneri-costruttori sin dal primo momento. Al loro arrivo la temperatura viaggiava intorno ai cinque gradi centigradi, ma è bastato un pompaggio costante d’aria gelata perché scendesse a meno diciotto. Né il riscaldamento globale sembra preoccupare più di tanto. Anche davanti alla più pessimistica fra le ipotesi, come la perdita totale di refrigerazione, la temperatura interna difficilmente potrebbe alzarsi al di sopra dei meno tre virgola cinque gradi.
La struttura è protetta da una porta blindata. La sua ubicazione remota, gli inverni particolarmente rigidi, le correnti gelide, fanno il resto. Tutt’intorno, guardiani loro malgrado, gli orsi polari, tanto temibili da costringere la gente del luogo a disseminare la zona di cartelli di pericolo. Le uniche a ringraziare sono le sementi di Svalbard.
Un orso c’è, che presidia la porta d’ingresso, ma è una statua scolpita nel ghiaccio. Il tocco d’eleganza ha contagiato il resto: una scultura d’acciaio tutta prismi e specchi dell’artista norvegese Dyveke Sanne incastonata nella montagna all’imboccatura del deposito, in estate, riflette la luce polare, mentre in inverno, grazie a una rete di duecento cavi di fibra ottica, emana una luce bianca e verde turchese. Accorgimenti.
Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace 2004, fondatrice del movimento ambientalista Green Belt, era a Longyearbyen, il giorno dell’inaugurazione del grande deposito nella roccia. A lei, l’onore di consegnare la prima scatola di sementi, riso, tanto riso, proveniente da ogni parte del mondo. Da oggi nella notte artica di Svalbard splende una luce in più.