In principio fu Picasso. Il terribile, sfrontato, collerico dominatore dell'arte del XX secolo, insieme genio dalla personalità dirompente che paralizzava chiunque gli si avvicinasse. Anche Ernst Beyeler, allora sconosciuto gallerista di Basilea, ne restò affascinato quando, nel 1953, vide per la prima volta Guernica. E più tardi, dopo aver esposto e venduto alcune sue tele, scoprì similitudini e connessioni che lo avrebbero legato per sempre ad alcune opere. Come un ritratto di Dora Maar, Femme an vert, le cui proporzioni, così come la divisione degli spazi, evidenziavano il tributo di Picasso a Cezanne, nella sua Madame Cezanne au fauteuil jaune. Ed ebbe la prova di come un emozionante studio per Les Demoiselles d'Avignon evocasse l'arte primitiva confrontandolo con le maschere africane che aveva in galleria. Insomma, scoprì il fil rouge, il dialogo nell'arte di tutti i secoli e lui, il mercante, ne restò "prigioniero".
Per la verità c'era stato un momento in cui, per mancanza di soldi, Beyeler avrebbe voluto vendere quel grande e prezioso schizzo di Picasso che teneva appeso alle pareti della sua abitazione. Ma la moglie Hildy si oppose fieramente, minacciando di lasciarlo se si fosse separato da quella tela. Fu così che tornò indietro e trovò volentieri altrove le risorse che cercava. Oggi i due Picasso e il Cezanne sono parte di una strabiliante collezione di capolavori che ha dato origine alla Fondazione voluta da Ernst Beyeler come tributo ai più grandi artisti del nostro tempo e come dono alla comunità del mondo.
Nata nel 1997 con 190 opere firmate dai più grandi artisti del 900, ora la collezione ne conta 300, mentre la sede ospita ogni anno mostre affollate da centinaia di migliaia di visitatori. Quasi un miracolo per la piccola Riehen, villaggio svizzero stretto tra Basilea e i confini della Germania, a tu per tu con la natura, lontano anni luce dai percorsi artistici di Parigi e New York. D'altronde Beyeler non aveva mai voluto trasferire la sua galleria nelle grandi città, anzi, sfidando la sorte, era rimasto pervicacemente ad attendere che l'arte, quella importante, arrivasse sulle rive del Reno. E ha vinto la battaglia. Nel ventesimo anniversario della nascita della "sua" Fondazione, non una, ma tre mostre lo ricordano - lui scomparso nel 2010, due anni dopo la moglie Hildy - in quell' edificio progettato da Renzo Piano che lui aveva commissionato, ma anche discusso e modificato perché avesse la luce e le proporzioni necessarie ad orchestrare le opere che lasciava in eredità. Così, se una delle esposizioni, dall'11 giugno fino a settembre, esibisce la raccolta allo stato attuale, con le nuove acquisizioni di arte contemporanea, e un'altra, dal 15 ottobre fino al 1° gennaio, guarda alle potenzialità di incremento, quella iniziata a febbraio fino al 7 maggio, ricalcava invece l'allestimento iniziale delle opere, come Beyeler lo aveva pensato al momento dell'inaugurazione.
Ma non è solo un' incredibile collezione di pezzi "speciali" quella che ci viene offerta, bensì l'affresco della personalità di uno degli ultimi mecenati, né studioso, né mercante, ma appassionato d'arte e raffinato conoscitore. Un gentleman attento ai rapporti umani più ancora che agli affari; affari che pure sapeva fare molto bene. Solo un numero per dimostrarlo: 16.000 opere vendute durante la sua vita. Eppure, Beyeler, figlio di un ferroviere, aveva cominciato la sua attività di gallerista con le tasche vuote, anzi, con seimila franchi svizzeri di debito, che agli inizi degli anni Cinquanta erano una bella somma. Eppure ha lasciato un tesoro, mettendo insieme alcuni dei pezzi più belli di 40 tra i più importanti pittori e scultori del secolo passato.
Certamente nella sua vita non sono mancati errori, né è riuscito ad evitare falsi. E nemmeno processi. Ma la sua profonda sintonia con l'arte non è mai stata intaccata. Lo rivela anche un episodio che lui stesso ha raccontato a Chrisophe Mory in un libro-intervista pubblicato da Skira. Successe negli Stati Uniti, e per la precisione a Pittsburgh, nella casa di un collezionista miliardario, George David Thompson, che tra i molti capolavori, aveva anche cento tele di Paul Klee. Beyeler cercava di riportare in Europa quelle opere e voleva acquistarle, ma Thompson, oltre al denaro, chiedeva in cambio un quadro di Kandinsky, Improvvisazione 10, che il gallerista di Basilea teneva appeso nella sua casa in una sorta di rapporto intimo che escludeva il lavoro e toccava la sua anima. Nessun problema per i soldi: Beyeler avrebbe chiesto un grosso prestito a una banca, ma sul Kandinsky non poteva transigere. Fu così che di fronte alle insistenze del miliardario, cercò di trovare una scusa. "Quel quadro è di mia moglie: non posso venderlo!", gli disse. Thomson, rosso dalla rabbia, aprì allora la porta di un corridoio e a lui apparvero una serie di tele da capogiro - da Renoir, a Monet, a Redon - che non facevano parte della collezione ufficiale. "Vede?", gli rispose Thompson, "anche questi sono di mia moglie, ma se vuole può comprarli. E con mia moglie in omaggio!". Qualsiasi mercante avrebbe ceduto, ma Ernst no, lui restò inflessibile: meglio sconfitto che rinunciare al Kandinsky. La mattina successiva, però, poco prima che l'aereo partisse, Thompson lo chiamò: scelse un altro quadro e l'affare si concluse. I cento Klee furono riportati in Europa e vennero poi acquistati in toto dalla città di Dusseldorf.
Improvvisazione 10 è ora esposta nelle sale della mostra a raccontarci questa storia, che è anche la storia di un uomo e non solo di un mercante. Quel quadro è stato ed è rimasto uno dei vessilli della sua collezione, insieme allo studio per Les Demoiselles d'Avignon e ad altre, molte, opere di Klee. Astrattismo e cubismo, allora, passando attraverso Monet, Matisse e van Gogh, Brancusi, Rodin e Giacometti, Mirò e Leger, fino alla Pop Art, in un dialogo costante tra gli artisti, una sorta di catena che li unisce tra loro nella ricerca di una comunicazione sia con il pubblico che con la natura. "Con Giacometti, Beyeler cercava il legame tra pittura e scultura, con le opere primitive evidenziava il vincolo con quelle contemporanee, mentre il Dio volante di Rodin sembra significare il rapporto tra cielo e terra", spiega Raphael Bouvier, curatore del ciclo di mostre allestito a Riehen. "L'intima congiunzione tra artista e natura ha sempre interessato molto Beyeler e il suo obiettivo nella prima esposizione al pubblico della collezione era proprio quello di rendere tangibile la speciale interazione tra le singole opere, così come lui la sentiva".
Grazie anche alle foto si è così fatto rivivere la mostra delle origini, quella del 1997, una sinfonia di opere "orchestrate" dallo stesso Beyeler, in cui si rispettava la cronologia, evocando però un colloquio spirituale tra i vari artisti, che qualche volta diventa discussione, altre perfetta armonia. Così la sala aperta sul parco dedicata a Giacometti, con l'uomo che cammina verso la donna, rimanda a un'umanità in movimento verso il futuro, mentre le ninfee di Monet racchiuse in un fantastico trittico, hanno ripreso il posto sulla parete che lui aveva fatto costruire per loro, proprio davanti al laghetto creato all'ingresso della Fondazione. Entrando nell'edificio può succedere di vedere quelle ninfee rispecchiarsi nello stagno: arte e natura che si uniscono di nuovo in uno spettacolo che tocca le corde dell'emozione. E ovviamente la Femme en verte di Picasso dialoga silenziosamente con Madame Cezanne e con una serie di sculture africane.
Leger è invece opposto a Mirò, che è visto anche come l'origine dei "giochi" di Calder. Solo alla fine, dopo Mondrian, Klee e naturalmente Kandinsky, si arriva alla Pop Art, in una sorta di contrapposizione tra l'Europa e gli Stati Uniti che aveva coinvolto il gallerista-mecenate-uomo Beyeler. Dalla collezione mancano i surrealisti: non c'è Magritte e nemmeno Dalì. Forse perché Ernst non amava l'irrazionalità? E, a parte Dubuffet, a cui lo legava una sincera amicizia, anche i contemporanei non sembrano aver fatto parte della sua ricerca. Non era un cacciatore di talenti, Beyeler, ma piuttosto di sensazioni. "Lascio i commenti ai docenti universitari e agli storici dell'arte", diceva. "Quando compro un quadro, per prima cosa devo esserne conquistato e questo passa necessariamente attraverso lo sguardo, lo spirito e tutto il corpo". Questione di istinto, dunque. E anche questione di gusto, che a lui non mancava. "Meglio un bel Picasso che una quindicina di tele firmate da Picasso" era il suo primo comandamento. Il risultato è davanti ai nostri occhi. Su questa strada la collezione si è ampliata dopo la sua scomparsa coinvolgendo anche artisti più vicini ai nostri tempi in un confronto continuo proposto ora nella seconda e nella terza mostra del ciclo. Un'altra esposizione dedicata a Wolfgang Tillmans, 200 lavori fotografici e un audiovisivo, è iniziata il 28 maggio e resterà aperta fino al primo ottobre.