Se nell’Italia postunitaria “parlar male di Garibaldi” era considerato sinonimo di bieco reazionarismo e di antipatriottico filopapismo, altrettanto pericoloso era dir male di un altro “mostro sacro”, considerato alfiere del laicismo progressista e positivista: Giosuè Carducci. Senza dubbio, da un punto di vista della critica letteraria, la sua scuola operò una salutare virata nel senso di una più ponderata e documentata analisi storica e filologica, molto c’è da obiettare, però, sul preteso rinnovamento della lirica carducciana e sulla sua figura culturale.
Per la poesia basti notare che negli stessi anni in cui Mallarmé scriveva “Ces nymphes, je le veux perpetuer./ Si clair/ Leur incarnat léger, qu’ il voltige dans l’ air/ assoupi des sommeils touffus./…” nelle Odi Barbare troviamo: “Tal fra le strette d’amator silvano/ torcesi un’evia su ‘l nevoso Edone:/ più belli i vezzi del fiorente petto/ saltan compressi,// e baci e strilli su l’accesa bocca mesconsi…”… In quanto al preteso progressismo carducciano, si possono citare le acute osservazioni di Asor Rosa, che fa notare che l’operazione culturale dell’autore di Levia Gravia consisteva nel coniugare “borghesità e classicismo, la classe dominante dell’età contemporanea e la cultura delle classi dominanti del passato, che in Italia erano state soprattutto l’aristocrazia feudale terriera e, occorre ricordarlo, l’alto clero… Carducci, laico, mazziniano e anticlericale, riesce più da vicino a rappresentare i caratteri e lo sviluppo di questa vasta frazione della piccola borghesia risorgimentale, radicale e retorica…”. Era quella stessa retorica che il nostro Pascoli odiava, quando parlava di “Cardozz” e del suo seguito in Romagna, osservando amaramente che spesso i romagnoli sono fatalmente attratti dalla magniloquenza oratoria e declamatoria.
Nel 1878 Ravenna tributò il suo omaggio alle celebrazione risorgimentale, coll’inaugurazione del monumento a L. C. Farini, opera dello scultore Enrico Pazzi. Convenirono nella città alte personalità politiche, tra cui l’allora presidente del consiglio Cairoli e il ministro Zanardelli, che cominciarono a circuire il poeta toscano, presente alla cerimonia, prospettandogli il conferimento della “croce del merito civile di Savoia”. La sottile opera di adescamento continuò poi durante la cena della Federazione democratico-progressista, dove, in una calorosa atmosfera, inter pocula, i notabili politici riferirono a Carducci che la regina Margherita era entusiasta delle sue poesie di cui molte recitava a memoria e che l’aveva definito “il primo dei nostri poeti viventi”.
Da qui, probabilmente, scoccò la scintilla che portò poi Giosuè a scrivere “Alla regina d’Italia” (“Onde venisti?/ Quale a noi secoli/ sì mite e bella ti tramandarono/ …), a riconciliarsi con la tanto detestata monarchia e a scrivere quel “pasticcio da obnubilamento piccolo-borghese tra erotico e politico-ideale, che è Eterno Femminino regale”, dove leggiamo che la regina “si muove e cammina musicalmente con certe pause wagneriane” e che gli valse la feroce definizione “di gonne regali umil lecchino”.
Per andare al di là del fatto personale, dei narcisismi e delle rivalità letterarie, bisogna dire che il clima politico italiano era cambiato, le velleità risorgimentali di rigenerazione morale e civile stavano naufragando nell’immobilismo e nel trasformismo e la stessa “sinistra” e la massoneria erano diventate più morbide nei confronti dei Savoia, anche perché lo spettro dell’internazionalismo cominciava ad aggirarsi inquietantemente. I vari Crispi, Bixio, De Pretis abbandonarono le vesti sulfuree degli agitatori per accomodarsi sui più tranquilli e remunerativi scranni parlamentari, ma da questa insoddisfazione frustrante nasceva come rivalsa un atteggiamento aggressivo, che voleva esaltare il ruolo di un’Italia imperiale erede della grandezza romana e che spingeva verso l’avventura coloniale e così Carducci invocava: “Armi, armi, armi per la sicurezza/ E armi non per difendere, ma per offendere/ L’ Italia non si difende che offendendo…”. E proprio da Ravenna venne una delle più aspre contestazioni alla svolta filo sabauda e bellicista del poeta: “…or che una vertigine/ di briaco t’imbranca entro la reggia,/ or quasi al ferro la tua musa inneggia,/ ch’è fulcro al regio solio.// non più d’amor, ma d’odio/ par che la musa tua si pasca ormai:/ par ch’ella goda su gli umani guai”. Chi così scriveva era Giuseppe Nardi, militante socialista, studioso di dialetto (pubblicò un interessante Proverbi frasi e modi proverbiali del Ravennate con prefazione di Santi Muratori), gli stessi versi furono declamati dall’autore nel novembre 1891 in un “geniale convegno” del Circolo Popolare di Ravenna, e furono poi pubblicati sul foglio bisettimanale Il Radicale.
Si scatenò una polemica che proseguì con scambi di invettive e di minacce dei due contendenti, con un Carducci che irrideva alla dilettantesca vena del suo censore e con un Nardi che non disarmava e replicava: “Io non avrò tema di apprestarmi alla mia parte, poiché se V. S. mostrasi spavaldamente armato della sua indiscutibile superiorità letteraria, giustamente celebrata, io mi sento rassicurato da quella buona compagnia che l’uom francheggia che è garanzia di una certa superiorità morale”.
Dunque, con l’involuzione carducciana, tramontava un altro personaggio, ferrigno cantore risorgimentale e l’Italia si avviava lentamente verso l’inevitabile sbocco delle imprese coloniali e dell’interventismo: sarebbe toccato a un altro grande romagnolo, Renato Serra, carducciano “degenere”, esorcizzare la retorica della guerra santa, per scoprire tutta la sofferenza, ma anche tutta l’esperienza umana che si poteva trovare nella disperazione delle trincee, come risalta in questo stupendo passo dell’Esame di coscienza di un letterato “La guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella… è passata, devastando e sgominando; e milioni di uomini non se ne sono accorti. Sono caduti, fuggiti gli individui; ma la vita è rimasta, irriducibile nella sua animalità istintiva e primordiale, per cui la vicenda del sole e delle stagioni ha più importanza alla fine che tutte le guerre, romori fugaci, percosse sorde che si confondono con tutto il resto del travaglio e del dolore fatale nel vivere”.