Liguria: è una regione amata da molti per i suoi paesaggi, le sue coste e in particolare per il buon cibo, protagonista dei piccoli borghi che la caratterizzano. La cultura gastronomica della regione è infatti ritenuta riflesso della tanto acclamata “cucina mediterranea” in quanto gli ingredienti principe utilizzati sono gli stessi, a partire dall’olio di oliva aggiunto quasi esclusivamente a crudo. Focaccia di Recco o genovese, pesto, salsa di noci, verdure ripiene, sono solo alcuni dei piatti che i milioni di turisti che ogni anno vengono a bussare alla nostra porta non vedono l’ora di assaporare per poi portarne un timido ricordo nella loro terra dove, ammettiamolo, anche se sapientemente ripetute non regaleranno mai le stesse emozioni.
L’Italia vanta un ventaglio di tradizioni gastronomiche talmente ampio che forse nemmeno le massaie più abili o i migliori chef riuscirebbero a realizzare nel dettaglio. Ma le nostre ricette sono davvero tutte “farina del nostro sacco”? Non esiste italiano che non protegga la storia della propria gastronomia e, per non iniziare a filosofeggiare sull’origine degli ingredienti principalmente utilizzati nella nostra cultura mi dedico a un’unica ricetta da cui sono rimasta ispirata qualche giorno fa: l’asado ligure. Chiunque abbia girato per i ristorantini tipici della Riviera si è sicuramente imbattuto in questo piatto di carne, soprattutto nella zona del Levante. Avete mai provato a fare due chiacchiere con i/le cuochi/e? Vi risponderanno immediatamente con l’orgoglio di un gallo cedrone che quella ricetta è originaria di Genova, che la versione Argentina è una mera imitazione che, per giunta, nemmeno rispetta i canoni dell’originale. La verità?
Una volta tanto siamo noi ad aver imparato qualcosa dagli altri; verso la fine dell’800 le numerose migrazioni tra Liguria e America latina importarono numerose influenze culturali di entrambi i paesi, una di queste fu proprio la ricetta dell’asado (parola di origine castigliana che significa “arrostito”). La pietanza originale prevedeva che l’intero animale fosse cotto in un reticolo posto a lato della fonte di calore (rigorosamente brace) e sottoposto a una lentissima cottura, arricchito e inumidito di tanto in tanto con una miscela di spezie, olio e aceto chiamata chimichurri. La versione ligure invece iniziò a comparire nei menù a partire dagli anni ’50, ma divenne subito un “must” della cucina locale anche grazie all’utilizzo di spezie sapientemente aggiunte per donare un gusto inconfondibile. Adattata all’economia e alle riserve locali, la ricetta prevedeva l’utilizzo unico della pancia dell’animale in quanto parte molto grassa e saporita, senza escludere il fatto che per l’epoca fosse uno dei tagli meno costosi.
Durante la cottura la carne viene insaporita con una miscela di erbe (quali rosmarino, elicriso, salvia, alloro), olio, vino o aceto e rigorosamente spennellata con un rametto di rosmarino. La cottura avviene tramite spiedo in forni specializzati o, quando possibile, in prossimità di un focolare ricco di brace. La grande differenza delle due (oltre la materia prima) è che la versione ligure risulta molto più grassa, ed è assolutamente consigliabile consumarla calda, mentre l’altra è un perfetto equilibrio tra polpa e “ciccia” che al palato esplode di gusto per poi sciogliersi lentamente sulla lingua, anche a temperatura ambiente.
È vero che ogni paese ha le proprie ricette e tradizioni, ma ognuna di esse in fondo deriva sempre o quasi dall’unione con un’altra cultura. Chiedete alle vostre nonne (se avete la fortuna di avere una “Nonna Papera” in casa) e vedrete che i suoi PF (piatti forti) sono il connubio di viaggi, amiche, ricettari e materie prime originarie di paesi diversi. Sfiderei qualunque italiano ad aprire la propria dispensa e affermare di non possedere nemmeno una spezia orientale. Nel 2017 siamo tutti “ibridi”, siamo figli di una società di cui le radici sono profonde e affermate, ma che è talmente sottoposta alle influenze esterne di altre culture che non ci rendiamo conto dell’equilibrio che si è instaurato tra esse; andiamo avanti a testa bassa proteggendo quanto riteniamo “nostro” senza considerare che, forse, è un regalo che ci ha fatto qualcun altro, e alla fine dei conti siamo tutti fili che compongono la stessa rete.