Il giorno della festa, la feria del mondo latino, si caratterizzò sin dalle sue origini come giorno per celebrazioni, festeggiamenti, mostre e mercati. Il termine rito è usato per designare le procedure formali, gli atti di osservanza religiosa e le cerimonie di un culto, ma in un'accezione più ampia indica qualunque comportamento o attività formalizzata che si svolge secondo regole o procedure specificate dalla società: in questo senso si parla di ‘usanze’ oppure di ‘riti di passaggio’ (matrimoni, cerimonie di insediamento, ecc.).

Il rito è l'effetto di una causa che ha origine lontana; inizia con l'homo sapiens, inizia con il concetto stesso di preservazione dalla malattia: l'uomo primitivo, sentendosi immerso nella natura, si sentì soggetto a potenze invisibili dalle quali derivavano o la vita e la prosperità o la morte. Da qui ne scaturiva l'atteggiamento propiziatorio nei confronti di tali forze, al fine di assicurarsene la benevolenza. Il conflitto tra medicina sacerdotale e medicina magica si instaurò sin dal primo apparire del cosiddetto "atto medico".

La medicina sacerdotale trovava la sua logica nella constatazione che, contro i fenomeni imponenti della natura, ogni azione dell'uomo primitivo era vana; si consolidava quindi la persuasione della presenza di uno o più Esseri superiori, di lui assai più potenti o addirittura onnipotenti, trascendenti ogni possibilità umana e che quindi andavano "rabboniti" con la preghiera, l'implorazione, il sacrificio. La medicina magica, in aperta contestazione con la precedente e fiduciosa nei poteri dell'uomo, di questi ne fu espressione: essi si reputavano in grado di imporre la propria volontà al naturale svolgersi dei fenomeni e di potere regolare a proprio piacimento l'ordine delle cose [1].

Nacque così il “concetto del bene e del male”, nacque l'antitesi tra il sacerdote e lo stregone, progenitore del medico. Nacquero due modi di fare "medicina" (o religione?); in un mondo tutto da scoprire da parte di esseri primitivi e senza esperienza derivata, si confrontarono due approcci antitetici: il razionale, curioso di quanto lo circondava e delle leggi che lo regolavano; il credente, ossequioso a un volere sovrumano e trascendente in grado di gratificare come di colpire. Acquisita la concezione della superiorità di un Essere sovrannaturale, spontaneo ne venne, per l'uomo primitivo, il culto, l'insieme cioè dei rapporti permanenti dell'umano con il sovrumano, culto che è pubblico, stabilmente istituzionalizzato e manifestato in forma di rito. Quel rito che, di generazione in generazione, ha seguito l'evolversi e il raffinarsi dei costumi dei popoli, raffinandosi - e adattandosi a sua volta - e seguendo le inconsce aspirazioni delle collettività. I riti quindi, con il progredire della vita e delle convenzioni delle comunità, cominciarono a tipizzarsi: essi assunsero finalità che, per intendersi, sono definite: culturale o autonoma.

I riti autonomi, cioè "non magici", sono definiti da van Gennep riti di passaggio [2]; la loro conoscenza riesce a fornire un angolo di lettura della medicina primitiva, altrimenti incomprensibile, e che a ben guardare per molte sfaccettature è ancora dietro l'uscio di casa nostra. Tale rito è quello che presiede al passaggio di un individuo da uno stato all'altro di vita, da una situazione sociale a un'altra e interessa ogni stadio della evoluzione sociale: la nascita, l'iniziazione puberale, il matrimonio, la malattia, la morte.

Il rito di passaggio della nascita è chiarificante: un bambino fisicamente "nato", per una comunità è come inesistente sino all'imposizione del "nome", ciò che accade con l'iscrizione all'anagrafe. Per il primitivo il "neonato" non esisteva sino al compimento del rito di passaggio di accettazione nel gruppo. Scrisse Lévy-Bruhl che "prima di ricevere il nome, il neonato non è ancora una persona, è solo una crisalide". Ma ugualmente determinante era - e in un certo senso lo è ancora - il rito di passaggio del matrimonio: questo comportava la separazione della sposa dalle compagne e dal nucleo familiare, una serie di riti apotropaici atti ad allontanare dai nuovi coniugi le influenze maligne, l'aggregazione che comprende l'ingresso solenne della sposa nella casa dello sposo e il banchetto nuziale, prima dell'ingresso nel talamo.

Pure l’evento della fiera, in passato, fu una delle usanze caratteristiche, rituali, ed entrò anche nel mondo delle fiabe: quello che “va in fiera a vendere l’asino”. Caratteristiche furono pure le fiere storiche di Sicilia, tra le più antiche peraltro, e documentate nella Collezione Delle Leggi e de' Decreti Reali del Regno Delle Due Sicilie curata da Domenicantonio Vacca e risalente al 1841 [3]. La fiera nei millenni divenne momento rituale nelle comunità grandi e piccole.

Pure Galati Mamertino l’ebbe, almeno sino agli anni Quaranta dello scorso secolo. In quel tempo avere un mezzo di locomozione era impossibile perché il comune non era collegato alla viabilità nazionale; il quadrupede era “l'automobile” e con quello, piano, s'arrivava dovunque. Quasi ogni famiglia ne possedeva uno. Come dimenticare il piacere di una lunga cavalcata? Anche quando conducevo il mulo all'abbeveratoio montavo in groppa, spesso a nudo pelo. Con quello che la famiglia aveva dopo i miei sei anni d'età me lo potevo permettere. Subito dopo sposato, invece, mio padre aveva acquistato una mula, il cui solo pensiero mi fa ancora accapponare la pelle.

Esteticamente un bell'uomo, longilineo, senza un filo di prominenza addominale, eternamente canticchiante un motivetto, specie nell'ispezione lenta alla sua vigna: così amo ricordare mio padre. Sposò mia madre che era povero in canna. Mi raccontava che il futuro suocero, che poteva dare una piccola dote alla figlia, lo voleva cacciare via perché non poteva portare al nuovo ménage neppure una mucca: Mi maritai, diceva, c'un paru di bertuli curti [4]. Ma era troppo un bell'uomo, perché mia madre se lo facesse sfuggire: U vosi e mu pigghiai!, continuò a dire ogni volta che se ne parlava; ed ebbe ragione.

A quel livello, davanti a un uomo si ponevano due strade: quella dell'arricchimento facile e spregiudicato e quella del lavoro duro e onesto. Mio padre scelse quest'ultima, per innata rettitudine. Da solo tuttavia non avrebbe potuto fare molta strada; un quadrupede ci voleva e il giorno dei Ss. Pietro e Paolo si recò dda fera di Pileri [5]. Qui si davano appuntamento ogni anno i venditori di bestiame; facevano loro da corona i venditori di utensili da campagna, di finimenti per cavalli: qualche sella, i basti rifiniti a colori sgargianti, la cavezza con fiumi di pennacchi e decine di campanelli, pezzi che oggi fanno bella mostra nelle “tavernette” delle case signorili. E poi c'erano le bancarelle con l'immancabile calia a ddu bbotti, a calia 'e Nasu. Accertata la presenza di un compratore, si metteva in azione u sinsali, cioè il mediatore. La tecnica era sempre la stessa, mutuata dai costumi della lunga dominazione araba: richiesta alle stelle, offerta irrisoria; il sensale che faceva la spola; l'uno alzava qualcosa, l'altro abbassava il doppio, infine fra una bestemmia e una imprecazione si arrivava alla stretta di mano [6].

Ma anche quella tecnica con mio padre non poteva quadrare.
- Cumpari, chi vuliti?
- Na mula bedda.
- E i sordi l’avìti?
- No, picca nn'hai!
- E porcu diauluni, e comu vi pozzu fari ccattari na mula bedda cu quattru sordi?

Ma lui più cocciuto della mula che andava cercando, non si arrendeva.
- E ora taliu [7] ia!
- Taliati, cumpari, e si truvati carcosa, mu faciti sapiri ...

Ve n'erano di muli bellissimi nello spazio della fiera, ma di ogni esemplare se, con i soldi che mio padre aveva ‘nta pitturina, comprava una zampa, ne restavano fuori tre. E girò in lungo e in largo fin quando sentì un nitrito superbo e pauroso. Si volse e vide uno splendido esemplare di mula, dai cui occhi però saettava fuoco. Nera, col pelo lucido, altera, aveva lo sguardo della gran dama offesa per essere stata trascinata in un bordello. Forse il sangue le si rivoltava, nel trovarsi attorno vilissime bestie da soma, lei certo figlia di un peccato giovanile di una puledra di razza!

Quello di mio padre per quell'animale fu un amore a prima vista. Corse dal compare e lo invitò a interessarsi. Quale non fu la sua meraviglia quando, per quei pochi soldi, poté afferrare la corda della cavezza di quella bestia per condurla verso la sua stalla! Solo dopo qualche ora comprese l'arcano; era una bestia ancora selvatica che non sopportava in groppa neppure il basto. Per i suoi trent'anni fu un invito a nozze: intelligenza e forza contro orgogliosa indomabilità! Avvicinarsi alla mangiatoia dove era la biada provocava uno spettacolo senza pari, sempre, sino a quando dovette lasciare la nostra stalla: il muso lanciato in avanti e la corda che la fissava al muro tesa allo spasimo, la criniera violentemente schiaffeggiante i due lati del collo o fissa in erezione, la pelle del dorso e della pancia scossa da violenti fremiti, le due zampe anteriori puntate solidamente in terra, mentre le posteriori, sincroniche, si proiettavano scalcianti verso il soffitto; una furia, la furia! Caloriu, torniccilla!, continuava a ripetere mia madre. Ma lui aveva compreso che per creare la “sua” famiglia una sola furia - la sua - non bastava; con quell'altra la coppia era perfetta e l'avvenire economico era sicuro; la tenne!

Il braccio di ferro fu sfibrante e la bestia alfine si arrese alla volontà del padrone solo per paura. Fu un giorno in cui ruppe la corda e fuggi via. Prenderla fu un vero “rodeo”: la prese al laccio, ma quando tentò di rimetterle la cavezza, la furia si scatenò di nuovo. Fu il momento della verità! I due sguardi s'incrociarono, feroci; mio padre le si portò accanto, si avventò, la afferrò per le due zampe di sinistra e la scaraventò a terra! Fu paura quella che si impossessò della bestia: tremava, non reagì più! Era la resa, era vinta, era doma!

Note:
[1] Adalberto Pazzini, Storia della medicina, vol. I, Milano 1947, p. 13.
[2] Arnold van Gennep, Les rites de passage, Parigi 1909.
[3] Il complesso normativo interessa perché parla delle autorizzazioni per lo svolgimento della Fiera annuale nel Villaggio delle Acque Dolci, appartenente all'epoca al Comune di San Fratello, facente parte della Val Demone ricadente nella Provincia di Messina del regno delle Due Sicilie. Ma questo documento è doppiamente importante perché a proposito della fiera di Acquedolci vengono richiamate disposizioni ancora più antiche emanate nel luglio del 1813 da Ferdinando I di Borbone (Enrico Caiola).
[4] I bbertuli erano una sacca a due parti che si poneva sull'arcione o si portava a spalla; ovviamente la parte intermedia era ampia se la sacca doveva essere utilizzata per essere collocata in groppa alla bestia da soma, più corta se doveva essere portata a spalla dall'uomo, al fine di evitare che, camminando, la sacca anteriore potesse dare fastidio al ginocchio in movimento. Ecco, mio padre - secondo di sette figli tutti viventi - al momento del matrimonio apparteneva a quella categoria sociale che non aveva il potere economico per acquistare una bestia da soma.
[5] Con il vocabolo Pileri si indicava il quartiere alto del paese che confinava con una radura a mezza costa - allora prossima al centro abitato e da questo divisa da un torrente – e oggi totalmente edificata; la radura era in parte brulla, in parte ricoperta di pioppi e robinie.
[6] La stretta di mano, ancora oggi nei piccoli paesi, vale più dell’atto notarile: è la parola data.
[7] Taliari è il termine siciliano per ‘guardare’ o ‘cercare’.