Faccia a Faccia è il nome della mostra personale, visitabile fino al 1 aprile, che il museo Mambo e la città di Bologna dedicano all’artista, scultore, scenografo made in Italy, Mario Ceroli.
Senza porci da subito la domanda "A quale corrente apparterrà?", entrando nella mostra veniamo a contatto con la monumentalità delle opere, la grandezza, l’uso dei materiali poveri e il concetto che sta dietro all’operazione formale. Legno di pino di Russia è l’elemento preponderante con il quale l’artista si confronta, e poi le polveri colorate, il legno bruciato, la terra, la cenere, il vetro, ma anche marmi e pietre pregiate, scelta di materiali che sicuramente a un primo impatto fanno pensare all’Arte Povera, ad artisti come Pistoletto, Anselmo, Fabro o Zorio. Ma le etichette a volte sono penalizzanti e riduttive perché nel lavoro di Ceroli c’è anche uno straordinario aspetto pop, sia per l’ingigantimento che per la riproduzione seriale, come nell’opera La Cina del 1965, dove tante silhouette femminili e maschili marciano anonime in serie. E di teatri di silhouette evanescenti e riproducibili all’infinito si parla in alcuni lavori come Ombre e alcuni senza titolo, dove ombre di persone sagomate appaiono dietro a schermi di reti di ferro; appaiono anche sagome di mani, un canto libero di forme.
Del 1967 è l’installazione Cento Uccelli, un cubo nel cubo, una matrioska di cubi, di gabbie dalle reti metalliche: e nel cuore ecco una sagoma d’uomo seduta di fronte a una sedia vuota: qualcuno aspetta noi, curiosi voyeur? Oppure ci troviamo davanti alla trasparenza della solitudine racchiusa in una rosa cubica e metallica? I cento uccelli voleranno liberi? Interrogativi che popolano la nostra mente, e avanti. Eccoci dinanzi a Progetto per la pace e non la guerra, 365 giorni di pace, 365 bandiere bianche nella sabbia, una per ogni giorno, una promessa di felicità day by day, un impegno globale, un’utopia plastica, un auspicio dagli echi di John Lennon e Yoko Ono, no war riecheggia in the air.
E poi preziosi globi, dorati o di legno, parole incise nel legno; il pino di Russia è stato lavorato per dare forma alle parole, che rimarranno lì, per sempre, soggetti a chissà quale numero di occhi indiscreti. Battaglia del 1978, cavalli e soldati e bandiere, eccoci catapultati in un teatrino di guerra, di lotta per qualcosa, tra silhouette e sagome di legno, marionette esanimi, bidimensionali che intagliano lo spazio in angoli e piani di racconti.
E poi l’incontro con la madre terra, la sagoma dell’artista, l’impronta del suo corpo, lasciata lì volubile su un cumulo di terra, un ritaglio d’uomo, il suo confine, che si amalgama in un rito d’amore silenzioso con la genitrice terrestre. Verrebbe voglia di tornare bambini, di rotolarsi freneticamente su un campo e lasciare le tracce di noi stessi sul tappeto di terra sottostante, al quale non dedichiamo abbastanza affetto, o eros, e pur calpestandolo tutti i giorni, non ci rendiamo conto della reciproca appartenenza filologica.
Una palla nera molto grande, legno bruciato e sagome scure, una prospettiva circolare, sferica per ricordare nello spazio di una parete, l’orrore della bomba atomica in Giappone. Un urlo silenzioso, ma devastante, il profilo del volto nero, la disperazione, più sottile e letale di Munch. E poi il cielo in una stanza? No, meglio in un museo. Un’opera davanti alla quale si rimarrebbe ore seduti per terra ad ammirarne il colore azzurro del vetro, per non arrivare mai a capirne l’anima e l’astrazione, la purezza, come se l’artista fosse riuscito a strappare veramente, a catturare una porzione di cielo, chissà cosa ne direbbe Gino Paoli.
Più bravo di Geppetto, debitore forse di Collodi, da bravo sculture, Ceroli dà al legno un’anima, un concetto, una presenza, ci restituisce il legame poetico con la natura, usa materiali che sanno di essere preziosi come il marmo del Belgio o del Portogallo, usa i vetri come sfoglie trasparenti e ghiacciate, e le polveri colorate richiamano il profumo delle terre selvagge, pure, libere non condizionate da dogmi o schemi.
La Natura - a volte dissecca un Arbusto -
A volte - scotenna un Albero -
Il suo Popolo Verde se ne rammenta
Quando non muore -
Più languide Foglie - di Altre Stagioni -
Silenziosamente testimoniano -
Noi - che abbiamo l'Anima -
Moriamo più spesso - Non così vitalmente -
(Emily Dickinson)
Moriamo più spesso e non ce ne accorgiamo, ma è la natura che ci insegna il rinnovo, così silenzioso, che batte lì, nel centro esatto della terra che gira e mai stanca danza un nuovo giorno di speranza.