Come l’origine della mirra, anche quella dell’incenso è legata a una vicenda di amore e morte. A raccontarla nella sua versione più completa è il poeta latino Ovidio. Nelle sue Metamorfosi così racconta:
«Su molte donne ha steso il velo dell'oblio Leucòtoe, lei nata da Eurìnome, la più bella che esistesse nel paese degli aromi; ma una volta cresciuta, quella figlia, di quanto la madre superava tutte, la superò in bellezza. Orcamo, il padre, regnava sulle città degli Achemènidi e per nascita è ritenuto settimo dopo l'antico Belo. Sotto il cielo d'Esperia sono i pascoli dei cavalli del Sole: ambrosia, non erba vi trovano, e nutrono con questa le membra stanche del lavoro diurno, temprandole alle fatiche. Ora, venuto il turno della notte, mentre i destrieri brucavano laggiù la divina pastura, il dio, preso l'aspetto della madre Eurìnome, entra nella dimora dell'amata e in piena luce, tra dodici ancelle, gli appare Leucòtoe, che girando il fuso ne trae fili sottili. Così, dopo averla baciata come madre una figlia diletta: "È un segreto," dice, "uscite ancelle: una madre ha pure il diritto di parlare in segreto". Ubbidiscono, e quando il luogo fu privo di testimoni, il dio: "Io sono colui", comincia, "che misura la lunghezza dell'anno, colui che tutto vede e grazie al quale la terra vede le cose, l'occhio del mondo: credimi, mi piaci!". Lei tremante di paura allenta le dita lasciando cadere conocchia e fuso. Ma persino il timore le donava. Senza più indugiare il dio riprese il suo aspetto e lo splendore consueto; e la vergine, benché atterrita da quella visione inattesa, vinta dal fulgore del dio, subì la violenza senza un lamento. S'ingelosisce Clizia (il suo amore per il Sole era sfrenato) e in un accesso d'ira contro la rivale divulga la tresca, rivelandola con infamia al padre. Furibondo e pieno di collera, malgrado Leucòtoe lo scongiurasse e, tendendo le mani verso la luce del Sole, dicesse: "Mi ha violentato, io non volevo!", lui allora la seppellì in una fossa, coprendone il tumulo di macigni. Con i suoi raggi lo perforò il figlio di Iperione, offrendoti una via che ti permettesse di estrarre il volto sepolto; ma tu ormai, ninfa, più in grado non eri di sollevare il capo schiacciato dal peso della terra e giacevi, corpo senza vita. Dopo il rogo di Fetonte, si dice che niente di più straziante dovette vedere l'auriga dei cavalli alati. Lui, è vero, cerca col potere dei suoi raggi, se gli è possibile, di richiamare al calore della vita quelle gelide membra, ma poiché il fato si oppone a tutti i suoi sforzi, cosparge di nettare profumato corpo e sepoltura, mormorando fra un mare di lamenti: "Almeno salirai al cielo". E improvvisamente il corpo impregnato di quel nettare divino si sciolse e del proprio aroma intrise la terra; a poco a poco allora un virgulto d'incenso, allungando nel suolo le radici, si erse e ruppe il tumulo con la cima».
Il dolore della morte di Leucòtoe, vittima della gelosia di Clizia e della violenza di Orcamo, si scioglie nelle note di un aroma capace di onorare nella massima forma gli dèi prima che gli uomini, e di esprimere con la sua fragranza, dolce e amara nel contempo, le vibrazioni dell’amore e una mancata felicità.
G. Squillace, I balsami di Afrodite. Medici, malattie e farmaci nel mondo antico, San Sepolcro, Aboca Museum, 2015