Si sollevano sul pelo dell’acqua per pochi secondi, come zampilli umani, in perfetta sincronia con i ritmi del nuoto, i muscoli dorsali lucidi e guizzanti scolpiti da una ferrea disciplina. Restano sospesi nell’aria, pilastri di potenza e armonia fisica, prima di esibirsi in tuffi da record. Silhouette di leggerezza compiuta fluttuano sul ghiaccio e si esibiscono in vortici da dervisci. Con la sua arte fotografica Stefano Nicolini esalta la purezza e la sacralità del gesto atletico nella mostra Champions in programma alla Galleria Obiettivo Reporter a Milano.
Mariateresa Cerretelli, curatrice dell’esposizione milanese, ha intervistato l’autore.
MC: L’esposizione Champions da Obiettivo Reporter presenta un’ampia selezione di un tuo progetto fotografico che prende ispirazione dallo sport e dall'osservazione attenta alle varie discipline. Quando hai scelto questo tema, quanto tempo ha richiesto per realizzarlo e come ti sei mosso nell’ambito delle gare agonistiche?
SN: Il progetto è iniziato nel 2009 con Piscine, immagini dedicate per l’appunto agli sport di piscina scattate in occasione dei Campionati Mondiali Roma 2009, e si è protratto sino al 2011. Tutte le fotografie che lo compongono sono state realizzate in occasione di manifestazioni di alto profilo internazionale: dai Mondiali di Ciclismo su pista del 2011 in Olanda al Sei Nazioni 2011 per il rugby, ai tradizionali eventi che ospita la città di Roma, quali gli Internazionali di Tennis, la Diamond League per l’atletica leggera, il concorso ippico di Piazza di Siena e tanti altri. Ciò ha comportato grandi difficoltà per ottenere gli accrediti di accesso ai campi di gara, una prerogativa dei fotografi della stampa specializzata e degli inviati delle grandi agenzie internazionali. Purtroppo ho dovuto constatare come sport e arte restino in questo ambito separati da barriere culturali che troppo spesso si traducono in ostacoli operativi.
MC: Perché i grandi protagonisti dello sport internazionale nella tua fotografia sono rappresentati nel movimento e nei gesti atletici?
SN: Volevo portare l’attenzione sull’essenza del più ammirabile dei loro primati, cioè la sacralità del gesto atletico e ho ritenuto attraverso l’incertezza dei tratti somatici di impedirne una facile identificazione. Mi è sembrato il modo migliore per distogliere l’attenzione da ogni riferimento a vittorie e primati sportivi ma anche dagli scandali di doping, dal gossip, dai marchi degli sponsor e da tutti gli altri fattori che allontanerebbero l’osservatore dalla purezza del gesto atletico inteso come culmine di una sfida a se stessi prima ancora che ai propri avversari.
MC: Hai descritto nella tua storia autoriale e con la tua poetica fotografica la paesaggistica e la ritrattistica del mondo animale inneggiando alla bellezza e alla forza espressiva, ma nelle tue immagini è sempre presente un allarme sullo stato di salute del nostro mondo e del genere umano. Come riassumi il tuo ruolo artistico nella contemporaneità?
SN: Negli ultimi anni ho avuto la possibilità di affacciarmi con la mia fotografia al mondo dell’arte contemporanea e ho notato con sorpresa un disincanto verso tutto quello che concerne una celebrazione secondo canoni formali dell’estetica della bellezza. Un atteggiamento che per avere un senso compiuto dovrebbe assumere che la platea dell’arte abbia già metabolizzato un profondo rispetto per l’ambiente naturale e il ruolo non da protagonista assoluto rivestito dall’ essere umano in tale ambito. Purtroppo così a mio parere non è: basti pensare che molte delle opere che hanno consacrato Damien Hirst quale numero uno dell’arte contemporanea sono state realizzate sacrificando esseri viventi, alcuni dei quali in via di estinzione. Non saprei riassumerti quale sia il mio ruolo artistico, ma spero continui a includere la denuncia verso la distruzione dell’elemento naturale e l’involgarimento del mondo in cui viviamo. Per perseguire tale finalità non mi farò remore nel promuovere la sensibilizzazione verso la bellezza formale sia attraverso la fotografia che con altri mezzi di comunicazione artistica. Anche se siamo nel 2013, ritengo che per un italiano sia ancora troppo presto per prescindere da quel senso di armonia dell’universale che la bellezza ha infuso da sempre nella nostra identità culturale e di cui mai come oggi abbiamo bisogno. Penso anzi che come italiani dovremmo avere il privilegio di trasmettere agli altri il valore fondamentale dell’armonia dell’universale senza cui non vedo futuro per la nascente società globale.
MC: Tu osservi che si deve riflettere su quanto già c’è, perché forse è il modo migliore per progredire. L’abbondanza di spunti che ricavi dalla realtà spiega perché eviti la manipolazione digitale dei soggetti che ritrai. E non ne hai bisogno per creare immagini che sorprendano rivelando. Puoi illustrare meglio questa tua concezione personale?
SN: Oggi viviamo in un mondo, fotografia inclusa, in cui per richiamare l’attenzione è richiesto di proporre incessantemente qualcosa di nuovo. Siamo però sicuri di aver fatto nostro, profondamente nostro, non dico ovviamente l’intero scibile umano, ma almeno i principi fondamentali che dovrebbero regolare le nostre conoscenze e quindi le nostre esistenze? O limitandosi all’ambito fotografico artistico siamo certi di aver metabolizzato le sensazioni e i valori espressi dalle opere create in passato? Senza questa certezza cosa possiamo aspettarci dalla spasmodica ricezione del nuovo? Credo che se ognuno di noi “adottasse” un numero limitato di opere fotografiche, apprendendo a voler loro bene, a rispettare nel proprio intimo il messaggio che contengono, a trasmetterlo eventualmente ad altri, faremmo un passo avanti ben più significativo che quello compiuto con lo sfogliare distrattamente l’ennesimo libro fotografico o visitare l’ennesima mostra. Per richiamare l’attenzione sull’inesauribile fonte di spunti per apprendere e sognare fornitaci dalla realtà, preferisco ridurre al minimo, in alcuni lavori escludere, l’uso del Photoshop. Al contempo sono conscio che occorre fare attenzione a non banalizzare il concetto appena espresso: non tutto quello che è presente in realtà è degno, secondo me, di essere riportato all’attenzione della fotografia e dell’arte, se non con un’adeguata espressività formale e concettuale. Altrimenti ben vengano le dimensioni oniriche proposte da alcune creazioni in tridimensionale.
MC: Hai scritto che i tuoi soggetti ritratti in mosso, l’incertezza dei contorni, la visuale ondivaga, non annichiliscono la capacità di penetrazione dello sguardo e, anzi, arricchiscono il giocoso incanto del dubbio, lasciando l’osservatore in una sala degli specchi senza alcun riferimento preciso, libero di dialogare con il tratteggio carismatico di ognuno dei soggetti ritratti. Ma i tuoi Campioni sono eroi o automi in cerca di un equilibrio nella dimensione del contemporaneo?
SN: I miei Campioni sono uomini e donne recuperati all’ involuzione di una solitudine esistenziale, di un agire senza ideali che ha ridotto l’essere umano ad umanoide, come gli Automi scarnificati di muscoli e anima rappresentati nel primo step della serie Piscine. Trait d’union con i miei lavori precedenti dedicati alla natura, i Campioni sorgono da una ritrovata comunione con l’elemento naturale per l’affermazione di rinnovati equilibri della dimensione umana e auspicano un ruolo guida per lo sport e per quello agonistico in particolare nell’adozione di un nuovo esperanto culturale per la società globale.
MC: Come hai ottenuto i tuoi effetti speciali in pellicola senza nessuna manipolazione digitale?
SN: Da un’attenta combinazione d’uso tra luce e velocità dell’azione. Nel caso di azioni ritratte in luce naturale, come quelle ad esempio nelle foto degli sport di piscina, un accorto movimento della macchina fotografica in determinate ore del giorno e in una data posizione rispetto al sole, può produrre rispettivamente effetti “aureola” o trecce di colore. La velocità dell’azione rende indispensabile operare con messa a fuoco automatica e il momento in cui scattare per ricavare l’effetto desiderato si riduce a una frazione di secondo. Ben poche volte durante il lavoro di Champions ho avuto la possibilità di fare dei test preventivi con i movimenti più tipici eseguiti dagli atleti delle specialità che mi accingevo a fotografare. A volte mi sono lasciato guidare dall’istinto e dal mestiere.
MC: Il tuo lavoro artistico di Champions rimanda al dinamismo pittorico del Novecento italiano. Hai attinto nella tua ricerca fotografica anche all’arte del secolo scorso?
SN: Non direttamente, ma come ho già accennato, credo che noi italiani conserviamo nei geni una sintesi del nostro privilegiato retaggio culturale