Se oggi Milano ha le credenziali di una metropoli internazionale e si conferma sempre più come capitale morale e centro propulsivo di tutto il paese – basti citare il recente articolo di Raffaele Simone, apparso su un noto settimanale, Roma sprofonda? Milano capitale! - non bisogna dimenticare che questo faticoso e faticato primato, che ha radici lontane, ha un più prossimo precedente di “lacrime e sangue”: l’impetuosa rinascita dopo le distruzioni della Seconda guerra mondiale.
La città, “insudiciata dalla morte”, come scrisse Alberto Savinio, subì, soprattutto a causa dei bombardamenti alleati che la martoriarono a partire dal 1940, una devastazione che le costò 2000 morti, la perdita di un terzo del patrimonio edilizio, la violazione e la ferita dei suoi simboli storici, come il Duomo, S. Ambrogio, La Scala, per non parlare della distruzione di una parte del suo potenziale industriale. Commovente e desolante al contempo l’immagine dei milanesi, che dopo il bombardamento del Duomo, ne raccoglievano i frammenti di bianco marmo, per conservarli come reliquie.
Un’occasione per rivivere e riflettere su quegli anni ci è stata offerta anche da una mostra allestita recentemente al Museo di Milano, Milano – Storia di una Rinascita, a cura di Stefano Galli, che ripercorre, con una serie di densi saggi e un imperdibile apparato fotografico, il travagliato percorso del decennio 1943-53. L’affresco tenebroso e luminoso di una città che, piagata non si piega e che passa dalla disperazione della devastazione alla sorprendente rinascita: come ha commentato il sindaco Beppe Sala, “Anche noi, ancor oggi, siamo figli di quel big bang di creatività e positività”.
D’altronde, la fragilità dimostrata da Milano nel difendersi dagli attacchi aerei, con la conseguente, tardiva richiesta di un sistema contraereo efficiente alla Germania, aveva palesato una volta di più come la retorica patriottarda del fascismo non fosse stata nemmeno in grado di tutelare il ganglio vitale della nazione. E tra i milanesi serpeggiava lo sconforto e la delusione, non solo per le privazioni, che costringevano molti addirittura a fare la fame o a dipendere dalla “borsa nera”, ma per le inutili sofferenze causate da una guerra ormai persa, come notava con preoccupazione una relazione dell’OVRA: “La gente che ormai non crede più a nulla e a nessuno, cerca di mettersi in salvo come meglio può, in attesa degli eventi, che a tutti appaiono disperati”.
È anche però vero che il regime stesso, sempre più scosso dal malcontento operaio, manifestatosi anche in una serie di scioperi, tentò di correre ai ripari proponendo come massima carica cittadina, podestà e capo della provincia (prefetto), Piero Parini, un fascista moderato, che cercò di ricreare un rapporto di fiducia e collaborazione con i milanesi richiamandosi alla comune tradizione ambrosiana e riuscendo anche a lanciare e ottenere per la città ( e non per la Repubblica Sociale, sottolineò) il prestito di un miliardo, soprattutto dalle tasche di piccoli risparmiatori. Alla fine, il degenerare di violenze, attentati, vendette, esecuzioni sommarie e il peso determinante dell’occupazione tedesca, costrinsero inevitabilmente lo stesso Parini alle dimissioni.
Altra figura nodale fu quella del cardinale Ildefonso Schuster, che, nonostante fosse poco amato dai fascisti per la sua rivendicazione di una certa autonomia morale dal regime, ma anche criticato dagli antifascisti “per la sua disponibilità a benedire i gagliardetti fascisti o ad allinearsi tra i fautori delle imprese coloniali … nella congiuntura 1943-45, la sua condotta assunse un eccezionale rilievo e si impose come un punto di riferimento per vasti settori della popolazione… ” (Storia Illustrata di Milano, a cura di franco Della Peruta). Da questo tragico quadro, risulta ancor più sorprendente, come, a pochi mesi dalla catastrofe, Milano risorgesse.
Tanti possono essere i simboli di questa reviviscenza, ad esempio la liberazione del Corriere della Sera, così descritta dalla partigiana garibaldina “Marisa”, recentemente scomparsa e che ricordiamo con commozione: “Il 25 aprile è stata una gioia per tutti, per me in modo speciale. Il CLN aveva deciso che una delle prime azioni fosse liberare subito i grandi organi d’informazione, e alle 8 del 25 aprile entrai nella sede del Corriere della Sera con D’Ambrosio, Gatto, Vittorini e altri giornalisti, accolti entusiasticamente dalla cellula antifascista interna. Subito furono messe in movimento le rotative e uscì in giornata la prima edizione del Nuovo Corriere della Sera”. Oppure il sobrio e antiretorico Monumento alle vittime dei campi di Germania al Cimitero Monumentale dello studio BBPR (Banfi, Belgioiso, Peressutti, Rogers) o ancora il concerto diretto da Arturo Toscanini alla rinata Scala nel maggio ’46; in più riaprirono la Rinascente, la Fiera Campionaria e il Vigorelli.
Imponente la rinascita culturale della città, la Casa della cultura diventò uno stimolante punto d’incontro di intellettuali, artisti, architetti; nacque il Piccolo Teatro e iniziò, a Palazzo Reale - riscattato dal Comune in cambio della Ca’ Granda, concessa allo Stato per l’università - la stagione delle grandi mostre, Caravaggio, Van Gogh, fino ad arrivare, nel ’53, a Picasso, con Guernica, recuperata all’ultimo momento grazie a una delegazione che si recò dal pittore a Vallauris e di cui faceva parte anche la partigiana “Marisa”. Sempre nel ’53 s’inaugurò il Museo della Scienza e della Tecnica con una grande mostra su Leonardo.
Si stava facendo strada il nuovo “design”, ma è nell’urbanistica e nell’architettura che si aspettavano i segnali di un rinnovamento radicale della città, Piero Bottoni progettava, secondo i criteri della “città diffusa”, il nuovo quartiere QT8 , dominato dalla “Montagnetta”, una collinetta artificiale realizzata con le macerie dei bombardamenti. Qua e là sorgevano nuovi palazzi dalle soluzioni originali, ma il razionalismo dell’anteguerra si perdeva, generalmente, in un “international style” che sfornava edifici senza qualità, in linea con gli intenti di chi voleva speculare sulla ricostruzione, rallentando così l’allineamento della città, soprattutto dal punto di vista urbanistico, con le altre moderne metropoli e capitali europee. Il Piano Regolatore, mezzo abortito, che venne varato nel ’53, infatti, presentava un regolamento edilizio talmente vago da permettere lo sfruttamento intensivo del centro storico, dove intere aree di secolare interesse storico e architettonico vennero snaturate con l’intrusione di banali architetture residenziali.
E così commentava, amaramente, Piero Bottoni, l’artefice di quel Quartiere Triennale VIII, che fu una delle pochissime realizzazioni di una nuova urbanistica: “Le speranze riposte nella ricostruzione del dopoguerra sono miseramente fallite. Mai nella storia delle nostre città si erano offerte occasioni così (tragicamente) favorevoli come quelle che le distruzioni della guerra avevano portato. E pure la ricostruzione, basata essenzialmente su scopi speculativi, ha ripetuto, ingigantendoli, tutti gli errori delle architetture precedenti”. E che non fosse tutto rose e fiori e le ferite della guerra civile non fossero ancora rimarginate è dimostrato dai sanguinosi scontri tra la “Volante Rossa” dei rivoluzionari duri e puri e i nostalgici neofascisti, che si affrontarono a colpi di mitra e bombe.
La cronaca di quei primi anni di pace portava poi in superficie conflitti, sociali e personali, che, precedentemente, la censura stampa del regime aveva occultato. Turbò profondamente la città la vendetta di Rina Fort, commessa e amante di un negoziante di tessuti, che infierì sulla moglie e i tre piccoli figli massacrandoli senza pietà: “Una specie di demonio si aggira dunque per la città, – così scriveva Dino Buzzati - invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue … Bisogna scovarlo. Occorre togliergli l’aria, incalzandolo oltre i confini estremi della città, respingerlo fino alle lontane foreste del buio da dove è riuscito a fuggire... ”. Anche la delinquenza comune ebbe i suoi tristi eroi, come il “gangster” Ezio Barbieri, che dopo aver spadroneggiato in città con la sua banda, una volta incarcerato, fomentò la rivolta di 3000 detenuti di S.Vittore, degenerata in una sanguinosa guerriglia con vittime e feriti. Rocambolesco il trafugamento della salma di Mussolini, che dal cimitero di Musocco, fu occultata presso i frati di S. Angelo, per poi essere sepolta in un luogo segreto.
Ma in città, dopo anni in cui si era dovuto solo pensare a sopravvivere, si voleva anche provare l’ebbrezza di una vita nuova concedendosi qualche assaggio di benessere e di divertimento scacciapensieri. Ecco allora affermarsi la Lambretta e affacciarsi la “lavapanni” Candy e il frigorifero Breda, mentre Radio Marelli progettava il primo televisore che riceverà le trasmissioni sperimentali dal centro di produzione RAI di corso Sempione. Lucia Borlani, commessa di pasticceria scoperta da Luchino Visconti, vinceva il titolo di miss Italia ’47 e diventava Lucia Bosé, diva di sale cinematografiche sempre più gremite.
E la Milano di oggi, può e in che modo considerarsi erede di quella di quei mitici anni? Certo, la metropoli ambrosiana ha saputo riprendersi anche dopo gli anni illusori della “Milano da bere” e bui di tangentopoli; lo spirito di accoglienza e la tradizionale generosità - che già nel dopoguerra aveva permesso l’occupazione e l’integrazione dell’ondata migratoria meridionale – non sono venute meno, ed è pur sempre la capitale del volontariato, che conferma la nomea del milanese col “coeur in man” . La città è sempre viva e innovativa e, come ha sottolineato Lina Sotis, intervistata dal nostro magazine: “Da testimone, non posso dire che una cosa: in tutti i suoi cambiamenti, Milano è sempre, caparbiamente, prima”.
Nonostante i problemi ancora aperti - in particolare quello della criminalità organizzata, che si sta infiltrando in gangli vitali dell’economia e della società, e quello dell’inquinamento ambientale – la città sta dunque vivendo una seconda rinascita, sforzandosi di conciliare cultura e “business”, sviluppo e vivibilità, identità e accoglienza. La scena finale di Miracolo a Milano il film che, nel 1951, immortalò, grazie a Zavattini e De Sica, una città tra realtà e sogno, tra speranza e delusione, mostra i baraccati, che scacciati dalla loro periferia per l’incombente speculazione, volano, a cavallo delle scope degli spazzini municipali, verso una città ideale dove “Buongiorno vuol dire veramente buongiorno”. L’augurio che ci facciamo è che questa città si possa trovare anche qui, sulla terra, magari proprio Milano…