È dedicata a uno dei più importanti artisti della scena italiana, Mario Cresci, la prima grande mostra antologica che la GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo promuove fino al prossimo 17 aprile.
Nato a Chiavari nel 1942, Cresci è tra i primi in Italia della sua generazione ad applicare e a coniugare la cultura del progetto alle sperimentazioni sui linguaggi visivi. Nel 1968 si trasferisce a Roma dove entra in contatto con Pascali, Mattiacci e Kounellis. Fotografa Boetti e il gruppo dell’arte povera torinese durante l’allestimento della mostra Il percorso. Nel 1969 alla Galleria Il Diaframma di Milano, progetta e realizza il primo Environnement fotografico in Europa. E a partire dagli anni Settanta ibrida lo studio del linguaggio fotografico e la cultura del progetto con l'interesse per l'antropologia culturale, realizzando in Basilicata progetti centrali per lo sviluppo della fotografia in Italia, tra cui il libro Matera, immagini e documenti del 1975.
Premio Niépce per l’Italia nel 1967, prende parte a diverse edizioni della Biennale di Venezia (1970, 1978, 1993, 1995); e dal 1974, alcune sue fotografie, insieme a quelle di Luigi Ghirri, fanno parte della collezione del MoMA di New York. Le sue opere multiformi attraversano il disegno, la fotografia, l’esperienza video, l’installazione. Curata da Maria Cristina Rodeschini e lo stesso Cresci, la rassegna alla GAMeC presenta una panoramica completa della poetica dell’artista, dalle origini del suo lavoro fino a oggi, evidenziandone l’attualità della ricerca nel contesto delle tendenze artistiche contemporanee. Cresci, infatti, ha utilizzato la fotografia per approfondire aspetti legati alla memoria, alla percezione, alle analogie, in un’analisi organica diventata sistema di relazione, memorie, tracce. La rassegna attraversa la produzione dell’artista dalle prime sperimentazioni sulle geometrie alle indagini di carattere antropologico sulla cultura lucana della fine degli anni Sessanta, ai progetti dedicati alla ricerca della scrittura fotografica e all’equivocità della percezione, in un percorso espositivo articolato in dodici sezioni che risaltano analogie formali e concettuali fra le diverse opere.
La fotografia del no, recita il titolo della mostra che si collega al libro di Goffredo Fofi Il cinema del no. Visioni anarchiche della vita e della società (Elèuthera, 2015), è la dichiarazione che per Cresci la fotografia è un “atto globale, non circoscrivibile al singolo scatto”. E così da Ipsa ruina docet, 1996 – 2016, dove vive ex novo il rapporto tra classico e moderno, a Geometrie, 1964 - 2011, in cui risalta l’uso di forme geometriche quali cerchi, quadrati, croci, che dal Suprematismo al Minimalismo l’artista smitizza attraverso distorsioni e deformazioni, si assiste a un continuo e dinamico movimento di immagini che conquistano passo dopo passo l'interesse del visitatore.
Ecco allora la serie Geometria non euclidea (1964) e Accademia Carrara (1994), e le opere Rotazione tra cielo e terra (1971) e Geometria Naturalis (1975 - 2011) che danno luogo a immagini fortemente stranianti. Di altra angolazione è Cultura materiale, 1966 – 2016, dove vive una lettura non stereotipata della realtà contadina del Sud Italia. E assai originale è anche l'installazione Time out, 1969 – 2016, formata da 1000 cilindri trasparenti, dove protagoniste sono le immagini pubblicate su Instagram raccolte grazie alla “call” che l’artista ha lanciato nell’autunno 2016. Un’idea che riprende un lavoro del 1969, Environnement, presentato alla Galleria Il Diaframma di Milano, in cui l'artista racchiuse in altrettanti cilindri 1000 immagini che rappresentavano il consumismo dell'epoca.
E ovviamente non poteva mancare un’indagine sull’importanza del rapporto tra la fotografia e l’arte, rappresentata in Attraverso l’arte, 1994 – 2015, sezione che presenta le serie Vedere attraverso (1994 - 2010) e Fuori tempo (2008). Ma Cresci rielabora nel 2013 anche il ritratto che Étienne Carjat fece a Charles Baudelaire – a cui è dedicata l'omonima sezione - nel 1862, in un’opera (I Rivolti) composta da quarantasei copie del volto del poeta, una per ciascuno dei suoi anni di vita: con fotografie che offrono allo spettatore un’immagine sempre diversa del volto di Baudelaire. E ancora altre sezioni in mostra sono Transizioni, 1967 – 2016, D'après di d'après, 1985, serie in cui Cresci realizza “copie di copie” partendo da immagini di autori che sono parte della memoria storica della fotografia. Il concetto di copia diviene così per Cresci “un pretesto inventivo di nuovi percorsi segnici, vere e proprie “mappe” di un viaggio immaginario. Metafore, 2013 - 2016 e Video, 2010 – 2016 completano il suggestivo e organico percorso espositivo con video-opere che si snodano da Segni nei segni di segni (2010) alla rivisitazione della Pietà Rondanini di Michelangelo In aliam figuram mutare (2016).