Primo gennaio 2017, El Ostional, costa occidentale del Costarica, ore due del mattino. È stata una serena serata di Capodanno tra i compagni di viaggio: rhum, vino cileno e allegria ci hanno portato infine ai rispettivi giacigli. Ma io non ho sonno e non posso andare a dormire così, come se non ci fosse niente là fuori e decido di andare a vedere. Quando sono uscito, la padrona della locanda, fino ad allora così allegra, si è un po' rabbuiata e si è raccomandata di chiudere bene la robusta serratura del cancello, avrà sicuramente le sue buone ragioni, ma io sono andato ugualmente.
El Ostional è un agglomerato di povere baracche sulla costa pacifica del paese, attraversato da una strada polverosa di terra battuta che un turismo avventuroso ha convertito in agognata meta per chi, come me, cerca il volto della Medusa: la natura selvaggia e pericolosa dell'America tropicale. La notte mi ha avvolto immediatamente, una musica sincopata di ritmi caraibici proviene da un bar poco distante fiocamente illuminato da neon violetti, attraverso la polverosa carretera, come si chiama qua, e la musica subito svanisce assordata dalla sinfonia corale che mi circonda: milioni di insetti, rane e uccelli salutano a modo loro il nuovo anno, dalla foresta che mi sovrasta sotto una trapunta di stelle che il buio assoluto esalta in modo incredibile.
Poche lucciole volano veloci, non sono come le nostre, piccole timide e numerose, queste sono grosse come calabroni e fendono l'oscurità come comete, percorro il sentiero che porta alla spiaggia e trasalendo mi accorgo di due macchie bianche che mi guardano, capisco che sono gli occhi di un indecifrabile personaggio seduto lì vicino, su un tronco abbattuto, che saluto con noncuranza come fossimo amiconi. Ho con me solo una torcia elettrica e un piccolo coltello da caccia la cui lama ha trafitto al massimo il gambo di qualche porcino. Non ho paura, d'altronde sono abbastanza brillo, pardon: ebbro di ottimo rhum “Flor de Cana” del Nicaragua e sto molto, troppo bene.
Il rumore della risacca si fonde con quello della giungla che mi lascio alle spalle, lontano, solo un faro ritma un fascio di luce e sopra di me esplode nel silenzio una sinfonia di stelle come non vedevo da tanto tempo. Sul mare troneggia una sottile falce di luna al cui riflesso scorgo alcune ombre nere che si muovono lentamente. Lo so cosa sono e so anche che non dovrei stare qua. È la stagione in cui, su queste spiagge, migliaia di tartarughe marine salgono dall'Oceano a deporre le uova. Tartarughe oliva dal carapace ovale iridescente incrostato di cirripedi, tartarughe caretta e gigantesche baulas, le rare tartarughe liuto, da quasi mezza tonnellata, guidate da un misterioso istinto, tornano alle spiagge su cui sono nate e depongono le uova della loro progenie, così come milioni di anni prima facevano i dinosauri sulle sabbie dei mari primordiali. E infatti una grande tartaruga oliva sta faticosamente scavando nella sabbia con le pinne posteriori a un metro da me.
Tra qualche mese, covate dal calore del sole tropicale, le uova che deporrà si schiuderanno tutte insieme ed esserini minuscoli, copie in miniatura della grande genitrice, risaliranno in massa dalla buca di sabbia e inizieranno una epica e tragica corsa verso il mare. Di esse, forse una su cento, se non verrà divorata dagli sciacalli e dagli avvoltoi testanera, che aspettano al varco sulla spiaggia o se non verrà rapita dalle feroci e magnifiche fregate che volteggiano sulle onde, riuscirà a compiere la sua prima immersione e sparire così verso la salvezza tra le alghe e i coralli.
Torno a dirmi che “non dovrei stare qua”, perché l'area è protetta e guardaparco severi, dediti in realtà al bracconaggio e per questo assai pericolosi, pattugliano la spiaggia, ma, essendo la notte di san Silvestro, probabilmente sono ubriachi a russare sulle loro amache di canapa in stamberghe dai tetti di lamiera ondulata. Sono seduto sulla sabbia calda, e la testuggine oliva lunga quasi come me, sbuffa e geme dalla fatica per scavare la buca dove deporrà le uova. Accendo per un secondo la torcia e incrocio il suo sguardo: un occhio nero e lacrimoso si volge verso di me e per una frazione di secondo interrompe la sua sacra fatica. Mi vergogno di averla interrotta e spengo immediatamente la luce trattenendo il respiro: se disturbata può abortire il processo e ritornare in mare, ma per fortuna riprende a sbuffare.
Torno a sdraiarmi, Dio che bellezza mi circonda! Che mormorio meraviglioso, che luce eterna splende sopra di me, mentre mi rendo conto di non avere le parole, i sentimenti per vivere un tale portento con la pienezza che meriterebbe. Che piccola ottusa particella di vita che sono io! Mi pare che la madre che partorisce lì vicino celebri molto meglio di me questa gran sinfonia di luce, di canti e di sangue. Provo un senso di inadeguatezza e al tempo stesso una grande commozione, e la gratitudine per tanta bellezza scaturisce in me non come qualcosa di doveroso, ma come una gioiosa effusione. E allora mi sono trovato a pregare, sì, ho pregato in silenzio il dio sconosciuto che ha creato tutto questo perché mi renda capace di rispondere alla vita con la risolutezza e la solenne dignità di questa madre che lacrima e geme nel compiere la sua missione qua al mio fianco.
Così sia.