Cultura croata, slovena, serba, intrecciata con quella ceca, con la rumena, l'ungherese, condite da un pizzico di Italia, Austria, Francia e Germania, sfido chiunque a non sentirsi ignorante di Storia (e pure di Geografia). Sto parlando del primo impatto con il Trieste Film Festival, alla sua ventottesima edizione, a gennaio di quest’anno. Non c’è da stupirsi che cercare di individuare caratteristiche che distinguano una cultura dall'altra, alla visione dei vari film, sia molto difficile. Se a questo si aggiunge che alcuni sono coprodotti, allora sì che è impossibile catalogare i vari stili! Ci rimane la distinzione fra film riusciti e non, valida in tutti i climi. Questo festival, comunque, è di alto livello, sia per la scelta degli autori, sia per il contorno di iniziative che si svolgono, parallelamente alle proiezioni, al Magazzino delle Idee.
Piuttosto che distinguere le opere in lungometraggi, documentari e corti, categorie secondo le quali le presenta il festival per premiare il più votato dal pubblico di ciascuna delle tre categorie, preferisco per descriverle definirle racconti, società e storie di guerra. Questo anche perché sempre più labile è la distinzione valoriale fra film e documentario.
Rientra nei racconti, per il commento poetico alle immagini, scritto dallo sloveno Aleš Šteger, il fuori concorso Beyond Boundaries (Brezmejno) di Peter Zach, un roadmovie attraverso i confini e gli abitanti dell’Europa Centrale. Ci introduce a un leitmotiv della mostra, i confini appunto, che si materializzano ad ogni piè sospinto data la piccolezza del paese visitato dall’unico personaggio, voce narrante che scrive all’amica i suoi pensieri e le sue emozioni di viaggio. Racconta Cuba Vitalij Manskij in Patria o muerte (2011), un film prezioso senza gli stereotipi che dipingono l’isola paese di delizie. Qui la vita sembra tutta incentrata sul modo di ballare veramente straordinario che riscatta i cubani dalle difficoltà quotidiane, ora che l’entusiasmo della rivoluzione si è, con gli anni, affievolito.
Racconto, ancora, di levità inimitabile quello di Mister Universo del duo Tizza Covi e Rainer Frimmel, un delizioso viaggio nel cuore delle sconosciute comunità circensi italiane. Un film di passaggio fra la fiaba e la descrizione di realtà sociali molto attuali, è il fuori concorso Babylon Sisters di Gigi Roccati, interamente girato a Trieste, una fiaba contemporanea che a ritmo di musica celebra la forza e la bellezza della multicultura. È stato accolto con grande entusiasmo da una folla di triestini, molti dei quali del quartiere Ponziana, dove è stato girato il film. A coronare l’atmosfera festosa della giornata sono state servite prelibatezze dolci e salate nel foyer della Sala Tripcovich, il più importante luogo delle proiezioni del festival.
È una fiaba con due personaggi, la donna e il ghiacciaio, il documentario estone-lituano Moteris ir ledynas che prende il titolo dai due. Più che donna meriterebbe di essere chiamata scienziata, perché monitorizza da 30 anni da sola la vita del ghiacciaio, fedele al suo lavoro in un luogo sperduto del mondo. Il regista, Audrius Stonys filma col fiato sospeso questo luogo delicatissimo, e inserisce fra le sue riprese foto d’archivio, che ci dicono che nulla è cambiato in un secolo. Oggi, invece, l’avanzare di un turismo irrispettoso che ha fretta e urla, mette in pericolo la vita dell’intero ambiente.
Si getta un’occhiata sulla società rumena in Lungo i binari (Dincolo de calea ferata), di Catalin Mitulescu. Alla base c’è un problema attuale, la separazione forzata che il lavoro induce in una coppia. Alla nascita di un figlio, lui, dalla Romania, va a lavorare in Italia, lasciando la moglie con la suocera. Il regista di Bucarest filma con sensibilità l’incontro fra i due, dopo un anno di separazione. La giovane e bella moglie, Ada Condeescu, mette in campo una strategia di seduzione, mista a ribellione, in una situazione sull’orlo del fallimento del matrimonio. In concorso all’ultimo festival di Karlovy Vary, si è aggiudicato una menzione speciale della giuria.
It’s Not The Time Of My Life (Ernelláek Farkaséknál) dell’ungherese Szabolcs Hajdu, film vincitore dell’ultimo festival di Karlovy Vary, affronta invece i conflitti irrisolti di due sorelle, che vengono acuiti quando, per necessità, la maggiore chiede ospitalità con la sua famiglia in casa della famiglia della seconda. Ovviamente il confronto si amplia per via dei cognati e dei figli delle due coppie, mettendo a dura prova la resistenza e la sopportazione reciproca delle due famiglie. Il film è stato girato con la collaborazione di 13 studenti di Cinema dello stesso Hajdu e quasi tutto in casa sua per rientrare nel modestissimo budget a disposizione. Ancora l’emigrazione è il tema centrale di un bel film greco, coprodotto con UK e Germania, Plateia Amerikis di Yannis Sakaridis. Due mentalità opposte verso gli emigranti dei due principali personaggi sono frutto di un modo di pensare e di vivere così diverso che non puoi non schierarti e vedere la pazzia, che il regista sa descrivere da maestro, emergere sempre più in quello dei due che considera gli stranieri dei nemici.
Ed ecco poi alcuni film sulle guerre, che le affrontano descrivendo il “dopo” attraverso la rielaborazione che ne fanno i personaggi del film. My Own Private War di Lidija Zelović, nel concorso documentari, tratta le memorie che lei stessa ha sulla guerra in Bosnia, e delle tante domande che si è fatta per riuscire a parlare senza indulgenze di cosa è successo nella sua famiglia di fronte a un trauma collettivo di quella portata. Di tutt’altro tipo il corto Sjecam se (Io ricordo) della bosniaca Elma Tataragic, un tentativo impossibile di stemperare la tragedia della guerra di Sarajevo, fotografando gli oggetti che la protagonista ritrova nella casa disabitata della sua infanzia, mentre una voce recitante e i bollettini radio della guerra irrompono nel silenzio dei suoi quieti ricordi. S one strane (Dall’altra parte), del croato Zrinco Ogresta, è uno sguardo al femminile su guerra e post guerra serbo-croata, impostato con grande cura affinché non appaia allo spettatore se il regista è serbo o croato. Con l’aiuto di una grande attrice, Ksenjia Marinkovic, si trasforma in un film di suspence, con più di una lettura. Da una parte sembra affermare che una donna che ha assistito agli orrori commessi dal marito non può tirarsene fuori, dall’altra ci suggerisce come le sarebbe stato possibile, agendo diversamente, evitare le stragi che sono state commesse. La stessa attrice la troviamo anche in Dobra Žena (A Good Wife) di Mirjana Karanović, il lungometraggio in concorso che ha vinto il Premio Trieste quest’anno.
Tra gli argomenti affrontati al Magazzino delle Idee ci limitiamo a ricordare, per l’importanza che riveste in un festival, i nuovi modelli di distribuzione del cinema di qualità, necessari per fare in modo che una dovizia di storie per immagini come quella appena descritta, che non è neppure esaustiva, sia visibile a un pubblico più ampio dei soli frequentatori del festival.