In questo gelido inverno, crogiolandomi vicino al camino, mi è venuto da ripensare all’incontro col pittore Giulio Ruffini, avvenuto anni fa in occasione del suo novantesimo compleanno. Incantata dal tremolio sinuoso delle fiamme, mi sono ritrovata a rivivere, a sognare ad occhi aperti questo emozionante incontro, in una dimensione oniroide, quasi come Alice che entra nel paese delle meraviglie.
Un grande cancello introduce in un ampio giardino dove troneggia una casa severa e importante, ma un forte olezzo di glicine avvolge di antichi e rassicuranti profumi e addolcisce l'atmosfera di un tardo pomeriggio di giugno.
D’un tratto si staglia una figura maschile, alta, avanza imponente, quasi altera, vedo uno sguardo scrutatore di quelli che trapassano e non concedono sconti. Mette soggezione, una linea gli segna verticalmente la fronte, come segno di un continuo lavorio della mente che non dà pace. Ricorda Il gigante egoista di Oscar Wilde. Si avverte un’inquietante aria di turbolenza. A un certo punto gli occhi bui fanno cenno di entrare. Vengo da subito investita e “avvolta” dalla miriade di colori che trabocca da un infinito numero di quadri che si impongono per una forza comunicativa inusuale che sembra straripare dalle cornici. Queste immagini calamitanti mi attraggono irresistibilmente e mi introducono senza scampo nelle storie che raffigurano. La storia che un quadro racconta mobilita affetti speciali per ciascun individuo, d'altra parte le parole e i pensieri nascono proprio dalle immagini e sono le stesse immagini che custodiscono le emozioni e il senso ultimo dei ricordi.
Le opere di Giulio Ruffini, che imparo poco a poco a conoscere, sono disseminate da una ricchezza di simboli che suscitano inevitabilmente letture variegate e intriganti interpretazioni. Ci sono immagini che compaiono trasversalmente in diversi dipinti, proprio come accade nei sogni ricorrenti, basti pensare, per esempio, ai cuori, alle conchiglie, all'occhio ciclopico e ognuna di queste, racchiudendo un’infinità di significati, suscita emozioni e induce libere associazioni di pensieri. Chiedo all’artista se sa da dove parte la sua ispirazione, se dal corpo o dalla mente, mi risponde, burbero, citando Michelangelo che dice che la mano è guidata dal pensiero. Ma se capovolgiamo il vertice di osservazione, possiamo considerare il tratto grafico come prima espressione del corpo, dove allora è il corpo stesso a ispirare la mano e dove il pensiero “in statu nascendi” è generato dal soma. Le sensazioni si trasformano dunque in segni e questi in immagini che, combinate assieme, per strane alchimie, daranno vita alla scena rappresentata dal quadro. I suoi schizzi li possiamo intendere allora come abbozzi di pensiero, che diventeranno poi figure che animeranno il racconto che abita il dipinto, probabilmente si tratta della storia interna del pittore che forse neanche lui conosce fino in fondo, ma è un “noto non pensato”, è un sapere implicito che appartiene alla memoria del corpo e che si manifesterà nel compimento dell'opera.
Freud era sempre stato molto attratto dall'arte e riteneva che l'inconscio, in pratica, fosse già stato svelato e rappresentato nelle opere di pittori, scultori, scrittori, sottolineando come ci fossero punti in comune tra la psicoanalisi e l'espressione artistica, entrambe, infatti, si posizionano tra sogno e realtà, tra ragione ed emozione, tra soma e psiche. Allora immagino i quadri di Ruffini come sogni sognati da sveglio ed è come se la sua mano sapiente, che crea graffi e carezze, spatolate e ricami sulla tela, ci conducesse nei meandri della sua mente suscitando affetti, sensazioni, emozioni, provocando una condivisione di sentimenti che ci catapulta in una inebriante dimensione onirica. Rendo partecipe il pittore di parte di questi pensieri e lentamente vedo il suo corpo addolcirsi, il suo sguardo rischiararsi e la sua voce diventare più calda. L’odore della paura cede il posto alla piacevolezza dello scambio. Ruffini si offre di accompagnarmi nel suo fantasmagorico atelier, mi lascia entrare in alcune delle sue visioni, mi permette di aggirarmici dentro, di farle vibrare in me per poterle risognare, dando loro un mio significato.
Ed è proprio da un quadro del 1994 dal titolo Violenza freudiana che iniziamo il nostro percorso, a zonzo tra immagini e pensieri. Questo dipinto rappresenta una sorta di paesaggio metafisico, forse lunare, dove abitano solitari brandelli di corpi femminili, apparentemente inerti e gelificati in statue, uno di questi, in primo piano, è trafitto da un braccio che lo penetra, nel pube c'è una serratura con una chiave inserita: è una promessa o una minaccia di possibile ingresso? Tutto questo scenario avviene sotto l'occhio impassibile di Freud, il cui volto appare sul lato sinistro della tela. Il rapporto sessuale adombrato nella scena è rappresentato come un atto aggressivo, violento, come se lo può immaginare la mente di un bambino. Ma è solo questa la violenza che suggerisce il titolo del dipinto? O c'è anche la violenza del pensiero di Freud che si introduce nell'intimità delle menti? Consiste forse nel possedere il passe-partout per visitare i segreti dell'inconscio? Allora la violenza può riguardare l'interpretazione, l'arroganza del voler dare nome all'indicibile? È nella violazione dell'intimo dell'umano?
Non ci può essere risposta a questi quesiti, d'altra parte non è possibile spiegare e imbrigliare l'ineffabilità dell'arte. “La risposta è l'infelicità della domanda” dice Blanchot, perché la domanda deve rimanere aperta e formicolare all'interno dell'anima per mantenere viva la ricerca, la passione, ma soprattutto per lasciare che i personaggi del quadro vivano liberamente la loro storia. E da lì, ci perdiamo nello zigzgare tra le sue tele, scambiandoci impressioni, sensazioni, pensieri colorati, piacevolmente avvolti in un'atmosfera di tepore emotivo, consapevoli della bellezza del momento.
Ci siamo conosciuti in un torrido giugno, è stato un incontro intenso, con un'intesa emotiva speciale, è sorprendentemente germinata una conoscenza intima che pareva incastonata in una relazione spalmata in un tempo lunghissimo, quasi come se fosse da sempre. Dopo due mesi la sua scomparsa improvvisa, che mi ha toccato profondamente, lasciandomi a lungo incredula e con un forte senso di mancanza. Ma, ad un tratto, nella mia mente costipata e annebbiata dal dolore, si è aperto uno squarcio, si è illuminato un pensiero imprevedibile, come se uno dei suoi suggestivi quadri tridimensionali rappresentante la luce, si fosse animato e, accendendosi, avesse reso visibile e vivido questo ricordo emozionante.
Eravamo nella sua casa scambiandoci pensieri fluttuanti che vagavano incuriositi qua e là, si parlava di cinema, di arte, di musica e, all'improvviso, il maestro mi aveva chiesto a bruciapelo: “Ha visto il film Breve incontro di David Lean? È bellissimo, ha come colonna sonora il Secondo concerto per pianoforte di Rachmaninov. Le piacerà, per me è un capolavoro”. Quel pomeriggio mi invitò più volte a guardare il film con tono caldo e appassionato, direi quasi perentorio. Fui fortunata, lo trovai e lo assaporai con commozione, trascinata dalle note suggestive del musicista russo.
Dunque, a posteriori, il collegamento del titolo del film, Breve incontro, con la nostra conoscenza così recente è stato un pensiero fulmineo: era come se il sapere implicito dell'artista avesse presagito l'evento della futura, imminente separazione. E la successiva associazione mentale è stata ricordare il suo quadro Il poeta veggente, opera intrigante che adesso acquisiva un significato aggiuntivo, più profondo e drammaticamente rivelatore. Gli artisti adombrano nelle loro opere, come in una maschera, l'irrequieto senso d'identità e l’inquietudine di intime percezioni. Ma non potevo sapere, allora, in quel dolce pomeriggio, che con mente visionaria e profetica, Giulio Ruffini, poeta e veggente, proprio come il protagonista del suo quadro, parlandomi animatamente del film Breve incontro, stesse anche parlando di noi.
Così come non potevo immaginare che, dopo aver scritto in luglio la prefazione del suo ultimo catalogo, intitolata Il mio incontro con Ruffini, mi sarei trovata ora a sognare una sorta di postfazione virtuale sul nostro Breve incontro...