La vulgata versione di un Pascoli idilliaco, ideologicamente in bilico tra socialismo filantropico e cristianesimo ecumenico, fa spesso dimenticare che dietro questo aspetto familiarmente rassicurante, si celava una ben più dolente e sconsolata filosofia, che tanto lo avvicinava al suo grande predecessore e riconosciuto “maestro” Giacomo Leopardi. Uno dei capisaldi della sua poetica era infatti, leopardianamente: “Consolare me stesso della miseria ineluttabile del vivere, e insegnare agli altri la consolazione che ho trovato per me”.
Certo, le vicende umane del grande poeta non furono eclatanti e volgarmente esibite come quelle del suo contemporaneo e da lui poco apprezzato collega D’Annunzio, ma, come scrisse Serra, “la poesia non si può separare dalla vita”. Dunque, la biografia pascoliana nascondeva, dietro un andamento borghesemente uniforme, i fantasmi inquietanti delle sue drammatiche vicissitudini e la costrizione a una vita “forzatamente casta e orribilmente mesta”. Da questo intrico di ossessioni e pulsioni represse scaturì la vena amara e lustrale della sua lirica.
Leopardi, nello Zibaldone, denunciava che “O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile … o questo mondo diverrà un serraglio di disperati”. Così, nell’autore de L’Infinito c’era ancora la recondita speranza di una rivolta dell’uomo contro l’aridità difensiva dal vero e il dominio folgorante della ragione e, forse, i prodromi della reazione romantica potevano aver dato qualche segnale in questa direzione.
Poi, svanita l'utopia romantica di palingenesi, l’antidoto individuale al nichilismo e all’“istinto di morte” che pervadeva sempre di più la modernità, rimaneva una regressione nell’infantile incoscienza felice e la stessa religione, rifiutata razionalmente, veniva recuperata nel suo aspetto estetizzante e decadente di sogno a occhi aperti, come nella pascoliana La Messa dei Canti di Castelvecchio: “La squilla sonava l’entrata. / Diceva con voce affrettata : / Non entri? Non entri? Perché? // C’è un rito con fiori, con ceri, / con fiocchi d’incenso leggieri. / … Non entri? Anche tu piangerai. / Ma il piangere è buono, lo sai; / ma il piangere è buono, lo so…”.
L’incombere del nulla e della morte, le uniche realtà assolute che Pascoli denunciava, mettevano sempre più in evidenza il valore “terapeutico” della poesia, che “Pone un soave e leggero freno all’instancabile desiderio il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità. Oh! Chi sapesse rafforzarlo … non farebbe per la vita umana opera più utile di qualunque più ingegnoso trovatore di comodità e medicine? E non so dire quanto la comunione degli uomini ne sarebbe avvantaggiata; specialmente in questi tempi in cui la corsa verso l’impossibile felicità è con tanto fulmineo disprezzo in chi va avanti, con tanta disperata invidia in chi resta addietro”.
I lenimenti del pianto, la comunanza nella sofferenza, l’esorcizzare la morte nella vicinanza delle anime dei trapassati erano tutti segni e immagini che non nascevano da una scelta “letteraria”, ma che ci riconducono proprio alle tragiche esperienze di vita dell'autore di Myricae. Una vita, dove l'ombra dei traumatici lutti familiari sembra avvolgerne anche lo sviluppo emotivo, come si può notare, ad esempio, nei rapporti del poeta con l’universo femminile, “in primis” con le sorelle.
Ida e Maria, viste entrambe come madri e figlie, protettive e protette, ma la prima anche con un’inconscia sfumatura di sensualità, come dimostrerebbe il disegno, ritrovato nella sua residenza di Castelvecchio, dove il fratello la ritrae a seno nudo. Maria, invece, incarnerà soprattutto un’ideale di tenerezza e di reciproca protezione: dualismo evocato stupendamente nel poemetto Digitale Purpurea: “Siedono. L'una guarda l'altra. L'una / esile e bionda, semplice di vesti / e di sguardi; ma l'altra, esile e bruna, // l'altra … I due occhi semplici e modesti / fissano gli altri due ch'ardono ...”.
Rimarranno frustrati i tentativi di Pascoli di uscire da questa triade perfetta e perversa, sia per un suo compulsivo senso di colpa sia, dopo il matrimonio di Ida, per l’opposizione di Maria, che, pur di mandare a monte il fidanzamento del fratello, rivelò un antico difetto fisico di Giovanni. Negli ultimi anni, come nota un acuto biografo-critico del poeta, “… continuò a vivere in solitudine, come aveva sempre fatto; lavorava, fumava, beveva … e mangiava a più non posso: mortadelle, tagliatelle, cotechini innaffiati da Sangiovese …”. Una sorta di “cupio dissolvi”, che ricollega la sorte del poeta a quel desiderio del nulla, tante volte evocato e invocato.