Affondato nel silenzio e nel buio del grembo terrestre il seme attende, colmo della memoria della specie che rappresenta, sicuro di essere pronto a portare a compimento il proprio destino, certo di racchiudere in sé l’inizio e la fine secondo il ciclo senza tempo della vita.
In quel minuscolo cuore sta racchiusa l’infinita potenza creatrice che, ad ogni nuovo anno, compie il miracolo della rinascita.
La Natura ama celarsi, conosce il valore profondo del silenzio che è disponibilità a lasciare che le cose accadano, che è capacità di custodire ancestrali segreti, di rendersi sempre disponibile alla vita, di non tradire mai la promessa di accoglierla, di proteggere con cura materna il ciclo delle stagioni.
Sono così importanti quel silenzio e quel buio che, nell’antico calendario romano, i mesi di Gennaio e Febbraio non esistevano, come a dire che il tempo dell’attesa doveva essere vissuto come un quieto e riposante sonno in grado di rinvigorire ogni promessa fino a farla sbocciare in pienezza nel tempo opportuno.
L’anno nuovo iniziava dal mese di Marzo, con la primavera, quando la Terra era pronta a ridestarsi al calore del Sole tornato a risplendere alto nel cielo, e il mese di Dicembre (December) era, come testimonia il suo nome, il decimo e ultimo mese dell’anno.
C’è un insegnamento che possiamo far nostro in questo mistico tempo di attesa, quasi un “avvento” di laica sacralità: impariamo a stare là dove siamo con pienezza, con sicura consapevolezza , sapendo da quale seme noi proveniamo e quale seme dovremo seminare. Non perdiamo la percezione del nostro essere, del nostro appartenere ad un Tutto nel quale ogni cosa trova il suo posto e si colloca delicatamente là dove è bene che stia. Così facendo si sviluppa una attenzione che è anche partecipazione alla vita di ogni essere animato o inanimato, animale o vegetale.
Così ci si sente in pace perché in sintonia con lo spazio e il tempo nei quali siamo immersi, pronti ad accogliere con amorevolezza. È questa una parola che mi piace molto, anche per il suo legame fortissimo con l’ascolto: c’è bisogno di percepire quanto più possibile le sfumature per poter abbracciare le cose con gentilezza e amore, perché l’attenzione si faccia più consapevole e il nostro pensiero cominci a diventare modo d’essere, perché non dimentichiamo che “quando camminiamo sulla Terra calpestiamo un organismo vivente”[1].
Lì dove siamo cerchiamo di trovare il nostro posto senza imporre la nostra presenza, osservando e ascoltando gli indizi piccoli o grandi, talora impercettibili, i suoni e i fruscii proprio come fa il seme nel buio animato del terreno.
Per fare questo è importante indagare quale sia la nostra attitudine. Questa parola è entrata con determinazione nel mio vocabolario, come se avesse voluto svelarsi per aiutarmi a comprendere il significato profondo della nostra natura primigenia, come se un segno luminoso ne avesse evidenziato i contorni.
Ciascuno ha un suo modo di essere “adatto” (il latino aptus) a qualcosa, anche alla vita: ecco perché non ci sono vie che vanno bene per tutti, bensì atteggiamenti, comportamenti, persino fedi che si trovano o meno in consonanza con l’attitudine che c’è dentro ciascuno. E c’è anche un’altra attitudine, che rimanda al latino actus, che è la nostra disponibilità ad agire, la nostra determinazione nel rispondere a ciò che sentiamo essere in armonia con la nostra scelta di vita.
La nostra attitudine è un po’ il nostro seme, solo che, a differenza di ciò che, con naturalezza, avviene nel grembo della Madre Terra, noi abbiamo bisogno di riscoprire il carattere originario di quel seme per poter apprendere che cosa dobbiamo lasciar crescere in noi, che fiore si schiuderà dal silenzio creatore della nostra anima, quale prezioso frutto saremo in grado di coltivare e custodire fino al momento della sua nascita. Per noi che ci siamo sempre più allontanati dalla “mente intuitiva”, che abbiamo ormai perduto questo dono sacro, non è facile “pensare col cuore”, sperimentare che cosa significhi sentirsi pronti a trasmettere la forza della memoria originaria che non può essere tradita perché dal seme del mais non può nascere il fiore del papavero.
Ritornare alla lingua del seme è ritornare alla lingua della vita, non più da un luogo di separazione ma da un luogo di comunione sacra. È la lingua del ricordo. Quando comprendiamo questa consapevolezza nel nostro corpo diventiamo pienamente parte della Terra e del cosmo…. Custodendo questa consapevolezza nel cuore, spontaneamente la restituiamo in dono alla vita [2].
Così la mente si acquieta, si vela di un dolce tepore come un piccolo uovo nel nido e l’intelletto cede il passo all’intuizione che significa dare occhi, orecchi, naso, voce e gusto ai nostri pensieri così da farli diventare semi di ringraziamento, di nutrimento, di guarigione.
Non c’è materia, storia da raccontare, soltanto saperi evocati nella silente solitudine del nostro ritrovare ciò che altri hanno lasciato sul nostro cammino.
Il seme è l’eredità della Natura, la sua memoria sacra da passare alle molte generazioni che devono ancora venire. La diversità è la potenza e la bellezza della vita [3].
Anche noi come il seme oseremo aprirci, ci lasceremo nascere con le nostre meravigliose diversità e imperfezioni, che sono simbolo dell’abbondanza della Natura ma anche della sua fragilità. Se i piccoli semi vengono alterati o danneggiati o distrutti la ricchezza della Natura va perduta e così la nostra ricchezza interiore, se non è alimentata dalla bellezza, dalla generosità, dalla speranza non avrà la forza di venire alla luce.
E qui diventano importanti l’ascolto e la fiducia. Agiscono insieme e si rafforzano a vicenda per aiutarci a cogliere le nostre corrispondenze e per non abbandonare la certezza che il seme custodito dentro di noi avrà la sua fioritura alla giusta stagione.
Nel silenzio, nell’ascolto, nella disponibilità ad affidarsi si riesce a far crescere il valore dello stare nelle cose senza ostentazione, senza obiettivi sempre più pretenziosi da raggiungere. Il seme non è competitivo, non si costringe a superare il proprio limite: segue la sua attitudine, si lascia crescere, segue il ritmo che la Natura gli suggerisce perché il suo compito sia completato.
E così può essere anche per noi quando cerchiamo semplicemente di essere in equilibrio con il respiro del nostro cuore: non importa fare cose grandiose, non dobbiamo essere perfetti, basta accogliere con pienezza il nostro essere nella vita.
Senza fare silenzio l’anima non respira e allora anche il fare diventa frenetico, ha il fiato corto. Più cerchiamo di amare più veniamo tentati dall’odio. Più cerchiamo la serenità più veniamo assaliti dalla confusione, dal disordine. Eppure il seme che abbiamo individuato come nostro resta dentro di noi e potremo ritrovarlo e tornare a farlo sbocciare ogni volta che lo cureremo: basta averne l’intenzione.
Gennaio è un bel mese per coltivare il silenzio, la cura e l’ascolto di noi stessi: nell’attesa, con fiducia. Un mese autorevole, pervaso di sacralità e fecondo di leggende che ci rimandano a radici lontane affondate nella magia dei re venuti dall’oriente guidati dalla luce della stella, nel significato rituale dell’epifania, nel culto di sant’Antonio che molto aveva in comune con quello della dea Cerere: tracce ancestrali che parlano di un tempo nel quale sacro e profano trovavano la loro armonia nel rispetto della Natura e dei suoi cicli.
A Giano il dio bifronte al quale era consacrato Ianuarius “Gennaio” il sacerdote romano faceva offerta di una elaborata focaccia per propiziare la sua influenza benefica sui futuri raccolti. In quell’inizio d’anno si invitavano a pranzo gli amici e ci si scambiava miele con datteri e fichi.
Giano sovrintende ad ogni inizio, ad ogni passaggio: lui che può guardare all’indietro e avanti allo stesso tempo, a ciò che è passato e a ciò che ancora deve avvenire, sta a guardia della “porta”, la ianua che è contenuta nel suo nome, come per assicurarsi che il cerchio dell’anno, l’anello del tempo si chiuda nell’eterno ciclo che non ha inizio e non ha fine; per garantire il passaggio al nuovo senza perdere la visione dell’antico.
È un bel mese Gennaio anche per prendersi cura delle parole che sono semi e hanno bisogno di essere nutrite con generosità e gentilezza affinché “la semina del cuore” [4] possa dare, a tempo debito, i dolci frutti della comprensione, della pazienza, del perdono.
A cura di Save the Words®
[1] Doju Dinajara Freire
[2] Anat Vaughan-Lee, in AA.VV., Seme Sacro, Libreria Editrice Fiorentina, 2014
[3] Acharya David Frawley , Vamadeva Shastri, in AA.VV., Seme Sacro, Libreria Editrice Fiorentina, 2014
[4] Tiokasin Ghosthorse, in AA.VV., Seme Sacro, Libreria Editrice Fiorentina, 2014