Il cantautorato al femminile fa capo al nome di Joni Mitchell. La sua poetica, mai ferma e rilucente dell’inventiva più indipendente e curiosa, ha dato il via a qualcosa i cui tratti prima erano troppo “timidi” per arruolare stuoli di seguaci. Ma se la figura del cantautore ha trovato con la Mitchell la sua vera controparte, va anche detto che una produzione come quella della cantautrice-pittrice canadese (o viceversa, considerato che spesso lei ha parlato della pittura come della sua musa principale) ha a propria volta influenzato non solo donne, bensì musicisti di tutti i generi e di tutte le generazioni.
Nata il 7 novembre del 1943 a Fort McLeod, nello Stato di Alberta, in Canada, Joni si appassiona fin da ragazza all’arte, alla musica e alla poesia e impara da autodidatta a suonare chitarra, ukulele e pianoforte. La sua voce è caratteristica perché svetta su note da soprano, in controtendenza rispetto ai canoni folk, e più in generale della popolar music. Trasferitasi negli USA, diventa autrice di successo (nel 1967 Judi Collins supererà il milione di copie vendute con Both Sides Now) e una volta giunta in California debutta discograficamente in prima persona.
Da Song To A Seagull (1968) a Ladies Of The Canyon (1970), passando per Clouds (1969), è un’ascesa continua, contraddistinta da canzoni che non fanno il verso a nessuno, poetiche e curatissime nella parte strumentale. Ad ogni modo, l’emblema su disco di questa nuova sensibilità e di un’espressione che dà ascolto soltanto alle ragioni del proprio vissuto e del proprio gusto artistico s’intitola Blue, album monumento del 1971. Blue suona come un canto che si lascia andare con estrema naturalezza al dolore dei ricordi e di una vita che fino a quel momento – nonostante i successi e la strada intrapresa con una certa determinazione - non era stata per niente facile. C’è sofferenza ma anche dolcezza, un contrasto che sa di rimpianto e accettazione insieme e che crea un vortice di sentimenti da cui bisogna soltanto lasciarsi trasportare.
È un cuore che ha subìto mille sussulti a parlare e a scrivere senza filtri le pagine di un “diario personale” fatto di parole e musica, una specie di “espiazione” che diventa opera d’arte e uno dei capolavori assoluti della West Coast. L’affermazione presso il grande pubblico avviene dunque così, in modo del tutto confidenziale e sicuramente inimitabile: ecco Blue, un lampo di dolore e smarrimento che si trasforma in poesia, un’esperienza talmente forte che la cantante stessa pensa non sia più possibile rivivere. “Nelle parti vocali di Blue non c’è forse una sola nota disonesta”, dichiara la Mitchell a Rolling Stone nel 1979, “in quel periodo della mia vita, ero priva di difese. Mi sentivo come una custodia di cellophane su un pacchetto di sigarette. Come se non avessi alcun segreto da proteggere dal mondo, e non potevo fingere di essere forte. O felice”.
Il paradosso è che la forza di Blue sta proprio in questa “incapacità di difendersi”: le 10 canzoni che compongono il lavoro sono l’equivalente di una seduta di psicanalisi in cui l’artista fruga incessantemente tra le pieghe della mente e le crepe del cuore. Pezzo dopo pezzo, passato e presente si rincorrono lungo il solco di un’inquietudine che non può essere sedata, l’unica è trasformarla in una dolce melodia. Se si guarda oltre il lato più emotivo e psicologicamente “irrisolto”, Blue si può leggere anche come un’autobiografia dei primi 28 anni di vita dell’artista: un’età giovane soltanto nel numero. Joni canta della sua terra natale e della California che successivamente la adottò; delle sue relazioni amorose, dal primo marito Chuck Mitchell (di cui conservò il nome) a Graham Nash, fino a James Taylor; del viaggio in Europa fatto poco prima (e durante il quale furono composti la maggior parte dei brani dell’LP) e, sembrerebbe - i versi sono frutto di interpretazione - , della figlia Kilauren Gibb, avuta a 19 anni da un pittore e subito data in affidamento.
Dopo tre album sotto l’insegna del folk, Blue mette definitivamente a fuoco il senso di libertà stilistica di Joni Mitchell e la sua cifra composta da pop, jazz e rock, e asciuga l’organico e la produzione in favore di un clima più raccolto che lasci in primo piano la voce. Anche il modo di suonare della “Signora del Canyon” non presenta similitudini con nessuno, altro punto forte del suo essere “archetipo”: sia la chitarra - che iniziò a studiare da ragazza su un metodo di Pete Seeger - sia il pianoforte trovano, grazie alle sue dita, stilemi inediti che evadono dai consueti equilibri e dalle regole scritte. Le strutture stesse dei brani che compone - intarsi raffinatissimi che si combinano con una precisione incredibile - sfuggono spesso a qualsiasi meccanismo noto, con quegli attacchi imprevedibili e quello sciame vibrante di note e parole al di sopra di tutto.
Nella sua intimità delicata come un lume, Blue non ha comunque potuto fare a meno di alcuni ospiti d’eccezione (Stephen Stills, James Taylor, Sneeky Pete dei Flying Burrito Brothers e Russ Kunkel), ognuno però attentissimo a lasciare a Joni Mitchell il centro emotivo del suono, la quale spazia da piano e chitarra al dulcimer appalachiano, uno strumento a corde di origine irlandese/scozzese che riveste un ruolo tutt’altro che marginale nel disco, tanto che lo si ritrova un po’ ovunque: nell’apertura All I Want, dedicata a James Taylor; nel singolo Carey, probabilmente il capitolo più spensierato del disco che fece arrivare il vento africano di Creta (“The wind is in from Africa”) nella classifica di Billboard; in California, nostalgica ode per la sua “nuova casa” e in A Case Of You, dove invece a mancarle è il suo Canada.
Little Green (l’unico brano scritto in precedenza) e This Flight Tonight, hanno un sapore più tradizionalmente “westcoastiano”, dovuto anche alle accordature aperte di chitarra imparate da David Crosby. Protagonista quasi assoluto del lavoro come strumento è ad ogni modo il pianoforte: difatti canzoni come My Old Man (dedica a Nash), Blue (che lascia intuire il tramonto della relazione con Taylor), River (sorta di malinconica “Christmas Carol” rivolta ancora una volta alla sua terra natale) e The Last Time I Saw Richard (per il primo marito Chuck) sono forse il colore più intenso del disco, pianti e sussurri colmi di poesia distesi su una tecnica strumentale originalissima ed esteticamente impeccabile.
Per quanto riguarda la grafica, Blue è il primo album della Mitchell ad avere sulla cover non un disegno ma un bellissimo e suggestivo ritratto fotografico (la foto è ad opera di Tim Considine): altro particolare per nulla casuale. È con questo disco insomma che la Mitchell fa capire al mondo chi è: un’artista nuova e aliena, vera ma irraggiungibile, incurante delle mode e del mercato, mossa sempre e solo dalla passione e dalla vita.