Una indimenticabile scena dello straordinario Amarcord di Fellini, malinconica e struggente. Siamo tra il 1932 e il 1933. Un folto gruppo di riminesi, all'annuncio del passaggio lungo la costa del leggendario Rex, scende nottetempo in mare con le barche per ammirare da vicino questo stupefacente piroscafo della cui bellezza si favoleggia. Nell’attesa, però, col favore del buio e dell'ora, si addormentano un po' tutti; poi all’improvviso l’annuncio di un ragazzino che l’ha avvistato. Eccolo finalmente, il Rex, maestoso, gigantesco, solenne con le sue altissime murate, tutto scintillante di luci, col lungo pennacchio di fumo al vento e con le spumose onde che si levano ai lati della prua. Per molti degli spettatori, stipati nelle barche, la nave è l'emblema straripante del potere del fascismo e del progresso economico italiano; addirittura un incaricato del podestà saluta ufficialmente a mano tesa i viaggiatori che dalla sua postazione può solo immaginare. Ma per molti di loro il Rex rappresenta il mito irrealizzabile di una vita più bella, il desiderio di lasciare un'esistenza provinciale e asfittica, l'aspirazione all'evasione, l'immaginario del viaggio in terre lontane e il sogno di feste e di balli a bordo tra lustrini e lampadari. La Gradisca, sensuale ingenua e sfortunata donna, interpretata da un’irresistibile Magali Noël, lancia in lacrime i suoi appassionati baci verso la nave e il mondo, per lei proibito, che essa rappresenta. Il Rex è stato uno dei più grandi e veloci transatlantici italiani; fu affondato nel 1944 tra Istria e Slovenia da ricognitori della Royal Air Force.
Altro transatlantico, altro passaggio, altri anni. Siamo all'interno di un trascinante romanzo di Erri De Luca, Tu mio, ambientato nell'isola di Ischia, in un’estate alla metà degli anni Cinquanta. Protagonista di una scena magistralmente raccontata dallo scrittore, è un altro prodigio della marineria italiana entrato nella leggenda: l’Andrea Doria. La nave compie una manovra azzardata; invece di passare, come di consueto, al largo dell'isola, s’infila tra Ischia e lo scoglio di Vivara. È un avvenimento per tutti. I pescatori, nonostante il pericolo rappresentato dalle onde che il passaggio provoca, mettono in mare le barche per andarle incontro. “Nel breve tratto di mare tra l'isola e lo scoglio di Vivara - scrive De Luca – si affacciò la prua gigantesca che passava a tagliare la rotta ai battelli di spola. L'isola ammutolì. Dal porto la capitaneria fece suonare in segno di saluto le sirene e la nave rispose con un muggito da mostro. Traversò il canale e tutto fu piccolo in faccia alla sua altezza”.
L'Andrea Doria, mitico transatlantico, celebre come il Rex, anche lui gioiello dell’ingegneria navale italiana, anche lui suscitatore di sogni e di fantasie, fu ancora più sfortunato; il 25 luglio del 1956 fu speronato dal mercantile svedese Stockholm e colò a picco in uno dei più drammatici disastri marittimi della storia. Ancora più leggendaria e tragica la storia del Titanic. Su tutti e tre ha aleggiato il mito del viaggio, dell'avventura, della scoperta di terre lontane, insieme al senso della caducità della vita per mare, esposta sempre al rischio di un naufragio.
Quando eravamo bambini, il senso dell'immane tragedia per mare ci fu trasmesso da un mesto e edificante racconto mensile del Cuore di De Amicis, Naufragio: storia di grida, di lamenti e morte, su un piroscafo partito da Liverpool, travolto e affondato da una tempesta. Parimenti triste, sempre nello scoraggiante panorama di Cuore, l'inizio della traversata del piccolo Marco che va in cerca della madre emigrata in Argentina, spostandosi dagli Appennini alle Ande. “Povero Marco – scrive De Amicis - quando vide sparire all'orizzonte la sua bella Genova, e si trovò in alto mare, su quel grande piroscafo affollato di contadini emigranti, solo, non conosciuto da alcuno, con quella piccola sacca, che raccoglieva tutta la sua fortuna, un improvviso scoraggiamento lo assalì”. Le storie raccontate da De Amicis sono ambientate tra gli anni 1881 e 1882. Il dramma dell'emigrazione, la disgregazione delle famiglie e la fragilità umana di fronte alla furia del mare e all’imprevedibilità di quanto può accadere in terre straniere, ci sono tutte in questi due racconti.
Dal 1876, anno d’inizio delle rilevazioni ufficiali sull'emigrazione, al 1980, sono emigrati all'estero oltre ventisei milioni d’italiani: una cifra enorme, una consistenza numerica superiore al totale della popolazione italiana al momento dell'unità nazionale. I paesi che hanno accolto il maggior numero di emigranti italiani sono stati gli USA (con 5 milioni e 700.000), La Francia (con 4 milioni e 400.000), la Svizzera (con 4 milioni), l'Argentina (con 3 milioni), la Germania (con 2 milioni e mezzo), il Brasile (con un milione e mezzo). Le regioni più coinvolte dal fenomeno sono state Veneto, Campania, Sicilia e in forma più contenuta, Lombardia, Piemonte, Friuli e Calabria. Cifre che danno bene l'idea delle proporzioni del fenomeno e il fatto che l'esodo spopolò l'Italia da nord a sud [1].
Il traguardo di chi lasciava le proprie terre era molto spesso oltreoceano, nelle Americhe, soprattutto negli Stati Uniti, in Argentina e in Brasile, e più tardi in Canada e in Venezuela. Viaggi costosi, lunghi e sofferti. Per chi arrivava negli Stati Uniti, c'era la anche mortificazione della permanenza sull'Isola di Ellis Island, alla foce del fiume Hudson, di fronte New York. Qui i nostri emigrati venivano sottoposti a controlli estenuanti e a visite mediche, con metodi sbrigativi e mortificanti, sempre con il rischio d'essere imbarcati e rispediti in patria.
Ancora tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, l'Italia era colpita dal fenomeno migratorio. Quelli della generazione dei sessantenni, vissuti in città di mare, ricordano ancora le partenze dei piroscafi. Nella nostra storia è fermo il ricordo di due navi gemelle, il Saturnia che faceva vela verso l'America del Sud e il Vulcania, diretta negli Stati Uniti. Il Vulcania aveva un itinerario particolarmente lungo: Trieste-Venezia-Patrasso-Napoli-Palermo-Gibilterra-Lisbona-Halifax-New York.
Indimenticabili le partenze del Vulcania dal porto di Napoli. Le operazioni d’imbarco, lunghe e complesse, occupavano un'intera giornata. Accompagnando i parenti in partenza sulla nave si restava colpiti tanto dalla vastità degli spazi comuni, quanto dalla congestione delle cabine di terza classe, senza oblò, da condividere per tanti giorni con viaggiatori sconosciuti. La nave salpava al tramonto emettendo ripetutamente il lancinante suono di una sirena che si affievoliva via via che si allontanava fino a scomparire dietro il profilo delle isole. C'era un’usanza a Napoli. A ogni segnale di sirena lanciato dalla nave, rispondevano in coro i clacson di tutti i taxi parcheggiati nel porto: semplice e straordinario tributo di solidarietà a chi partiva, spesso per sempre.
Ora, forse perché nei nostri porti si ammassano montagne di container e parcheggiano mastodontiche navi da crociera grandi come interi isolati cittadini, abbiamo dimenticato queste vicende che hanno coinvolto le nostre famiglie, dalle Alpi allo stretto. Ma, siccome la storia si ripete implacabile, dovremmo ricordarcene, dalle Alpi allo stretto, ogni volta che barche di disperati riescono ad arrivare sulle nostre spiagge.
[1] I dati sull'emigrazione sono tratti da: Gianfausto Rosoli, La grande emigrazione italiana verso le Americhe nei secoli XIX e XX. Roma, 1992, pag. XVII (In: Una valigia piena di America, mostra fotografica del 1992 alla Biblioteca Casanatense di Roma).