Tra i tanti aspetti della Grande Guerra, non è da sottovalutare la tutela di quanto vitale per l’approvvigionamento dell’esercito. Viene istintivo pensare alla produzione di armi, ma si aggiungono gli allevamenti dei capi di bestiame destinati sia alle razioni militari, sia al lavoro da soma, per trasporto e traino di attrezzature belliche, e fonte del pellame per la produzione di scarpe e stivali, selle e basti.
Gli allevamenti soffrivano la mancanza di forza lavoro maschile, carente anche per curare le coltivazioni: il foraggio scarseggiava con conseguente penuria di animali, non essendo sufficiente l’impiego di donne nelle attività agricole. Spesso, infatti, esse sostituivano i buoi e i somari nei lavori nei campi, spingendo il vomere per non sottrarre le bestie al contributo di guerra. Specialmente in Italia il problema era sentito, dato che il nostro Paese era arretrato dal punto di vista dei trasporti ferroviari. Doveva soddisfare il fabbisogno di bestie il Meridione, fortemente agricolo, ma l’aumento della domanda favorì l’innalzamento dei prezzi e fenomeni di delinquenza collegati al lauto affare.
Il ministro dell’Interno Orlando, quindi, propose e ottenne di estendere anche al Sud le norme dello Statuto Albertino in tema di pascolo abusivo, alzando le sanzioni per i delitti di abigeato (sottrazione di bestiame da allevamento destinato alla vendita). Ogni capo di bestiame, inoltre, doveva avere una sorta di bottone metallico all’orecchio per poterne tracciare la provenienza grazie alla registrazione all’Anagrafe del bestiame di ciascun Comune d’Italia. Ogni capo possedeva, depositata presso il Comune, una scheda zoometrica in cui il capo veniva descritto, con il suo stato: vivo, venduto, macellato. Il sistema apparentemente efficace, non lo era affatto considerando come venivano archiviate le schede e come fosse difficile consultarle, senza contare che il bestiame all’alpeggio, o diretto a fiere e mercati, non stava sempre nello stesso posto.
Nel 1917, allora, vennero inasprite le pene, soprattutto perché il fenomeno criminoso al Sud era diventato di proporzioni impressionanti e senza efficaci possibilità di contrastarlo. Venne istituito l’Ufficio Centrale per la repressione dell’abigeato e del pascolo abusivo, con sede a Palermo, al comando di un agente di Polizia. Peculiare era garantire che, mentre i soldati combattevano al fronte, in Italia non vigesse uno stato di criminalità generalizzata, dai furti al mercato nero, dalla diserzione alla mafia, dallo spionaggio al controspionaggio.
All’Ufficio facevano capo circa mille uomini, tra polizia, carabinieri e guardie di città, che operavano a piedi, in bicicletta, a cavallo, dotati di telegrafo, telefoni da campo, cifrari per i telegrammi e dinamo per la produzione elettrica che tenevano in bisacce da cacciatori, tutto materiale assolutamente all’avanguardia per i tempi. In dotazione avevano anche un fucile da caccia, a volte una doppietta o un revolver; spesso operavano in borghese, simulando essere cacciatori o similari. La loro azione divenne sempre più capillare, con continui aggiornamenti delle metodologie e vaste operazioni durante gli ultimi due anni del conflitto.