“Gennaro, questa donna, a cui parlavi d’amore, è avvelenatrice e adultera, incestuosa in tutti i sensi: lo è stata con i suoi due fratelli, che si sono uccisi tra loro per amore suo… con suo padre che è il papa, lo sarebbe stata persino coi suoi figli se ne avesse avuti, ma il cielo li rifiuta ai mostri (…). Vuole saperne il nome, Gennaro? È Lucrezia Borgia!”
Così Lucrezia Borgia viene ritratta nel XIX secolo da Victor Hugo: una donna malvagia, ammaliatrice e avvelenatrice, incestuosa e crudele; in poche parole, la versione femminile del suo potentissimo e spietato fratello, Cesare Borgia detto il Valentino. E probabilmente, ci sono poche figure del passato che hanno ispirato romanzieri e artisti come ha fatto questa donna, diventando così uno dei personaggi più controversi, e forse proprio per questo uno dei più affascinanti, del nostro Rinascimento.
Lucrezia Borgia è passata alla storia per essere stata, come la definì lo storico Francesco Gucciardini, “figlia, moglie e nuora” di Papa Alessandro VI, ossia il cardinale spagnolo Cesare Borgia, colui che si credeva “simile a un Dio” e per il quale tutto era lecito pur di ampliare il proprio potere e di vivere indisturbato un’esistenza fatta di vizi e lussuria. Non meno scandalo ha suscitato nel tempo il suo rapporto con il fratello Cesare: quello che è certo è che lei fu sempre molto condizionata da lui, al quale era unita da un legame fortissimo e spesso perverso. Si racconta persino che una volta Lucrezia gli chiese cosa provasse nei suoi confronti e, sentendosi rispondere che la amava di un amore solo fraterno, gli sputò in faccia.
Sicuramente, l’essere cresciuta e vissuta per molto tempo in una famiglia come quella dei Borgia, molto spesso presi come simbolo della politica più crudele e machiavellica, unita allo sfarzo e alla dissolutezza tipiche dei papi rinascimentali, non aiutò la fama di Lucrezia. Se si legge la sua biografia, risalta come per lungo tempo lei fu quasi uno strumento nelle mani del padre e del fratello, da usare per le loro mire espansionistiche. A cominciare da quando a soli tredici anni venne data in sposa a Giovanni Sforza, in quello che era un matrimonio puramente di convenienza, nato dal desiderio del padre di imparentarsi con la potente famiglia milanese. Quando i progetti politici del padre cambiarono, i Borgia chiesero e ottennero l’annullamento del matrimonio, accusando di impotenza lo Sforza. Forse per desiderio di vendetta, o forse perché ne aveva davvero viste molte all’interno di quella famiglia, lo sposo rifiutato reagì accusando Lucrezia e tutta la sua famiglia di essere incestuosi, e da qui ebbero inizio le terribili dicerie che accompagnarono la donna nel corso della sua esistenza.
Il secondo matrimonio di Lucrezia, sempre voluto dal padre e del fratello, fu quello con Alfonso D’Aragona: anche in questo caso, però, dopo poco tempo le vicende politiche convinsero i Borgia che non fosse più conveniente farlo andare avanti, e Alfonso fu spietatamente ucciso da Cesare nel 1500. In questo caso, sembra che Lucrezia fosse davvero innamorata del marito, e soffrì moltissimo dopo il suo omicidio: ne esce quindi un ritratto molto diverso rispetto a quello della donna spregiudicata e malvagia che ci hanno consegnato Victor Hugo e tanti altri artisti. Una donna che sapeva amare e voleva solo sentirsi ricambiata, fragile e vulnerabile, molto spesso costretta a subire i destini che gli uomini della sua vita, ovvero il padre e il fratello Cesare, le imposero.
Soltanto nell’ultima parte della sua vita riuscì a sottrarsi da questa influenza, ovvero quando sposò Alfonso d’Este, figlio di Ercole I duca di Ferrara che, in un primo momento riluttante all’idea di questo matrimonio per la fama non certo esemplare che Lucrezia aveva ormai presso le corti italiane, si convinse solo per il fascino e la bellezza della donna, su cui tutte le fonti sono concordi. E infatti, proprio grazie al suo fascino, alla sua cultura e alla sua intelligenza, alla corte estense Lucrezia riuscì in poco tempo a riscattarsi, almeno in parte, dalla pessima reputazione che aveva acquisito. Dimostrò di avere molte doti politiche e diplomatiche e di essere una buona amministratrice, tant’è che il marito arrivò persino affidarle la conduzione del Ducato quando era costretto ad assentarsi da Ferrara. Alla sua corte accolse poeti come Ludovico Ariosto, Gian Giorgio Trissino, Ercole Strozzi e Pietro Bembo, con il quale ebbe un nutrito scambio epistolare e sembra anche una relazione. Di certo, con lui condivideva l’amore per l’arte e, in particolare, per la poesia e per il teatro.
E proprio al rapporto con il Bembo è legata una delle tante leggende esistenti su Lucrezia: presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, dentro una teca, è infatti conservata una ciocca di capelli biondi che si dice appartenessero alla donna, e che fu ritrovata tra le carte personali del poeta. Nella pinacoteca milanese, infatti, è conservato anche il fitto carteggio che i due si scambiarono: lettere struggenti e delicate, che senz’altro non combaciano con l’immagine della donna cinica e spietata che molti storici e commentatori dell’epoca ci hanno tramandato. Lo scrittore inglese George Byron, che li vide in occasione della sua visita a Milano nel 1816, rimase molto colpito sia dalla profondità del carteggio che dalla ciocca di capelli, che definì “più simili all’oro che ad altro”. E la leggenda vuole che questa ciocca di capelli possa mantenersi in perfette condizioni proprio grazie a Lucrezia, che nella notte dei morti tornerebbe al museo per prendersene cura personalmente.
Un’altra leggenda a lei associata è quella riguardante il micidiale veleno da lei preparato e usato da tutta la sua famiglia per eliminare i propri nemici, ovvero la cantarella. Anche in questo caso, l’immagine della Lucrezia avvelenatrice ci viene consegnata da Victor Hugo nella sua opera: “Un veleno terribile – dice Lucrezia – un veleno la cui sola idea fa impallidire ogni italiano che sa la storia degli ultimi venti anni. Nessuno al mondo conosce un antidoto a questa composizione terribile, nessuno ad eccezione del papa, del Signor Valentino e di me”. Anche in questo caso, molto è probabilmente frutto della leggenda: molti tossicologi sono infatti convinti che questo micidiale veleno in realtà non sia mai esistito.
Negli ultimi anni della sua vita, Lucrezia condusse un’esistenza molto diversa da quella avuta fino ad allora: nel 1512, per le sventure politiche che colpirono lei e gli Este, si avvicinò molte alle figure di San Bernardino da Siena e di Santa Caterina e ai loro seguaci, fondando addirittura un convento di suore domenicane. Ma si guarderà bene dal realizzare una sorta di casa della mortificazione: seguendo San Bernardino, si dice che era solita ripetere “tutto ciò che di festoso viene da Dio non è mai peccato, è l’esaltazione della vita stessa”. Morì a trentanove anni per le complicazioni dovute a un parto, e le sue ultime parole sarebbero state “Sono di Dio per sempre”. Una figura contraddittoria quindi quella di Lucrezia, così come il tempo in cui visse, quel Rinascimento caratterizzato da una cultura raffinata e preziosa ma nello stesso tempo da tanta violenza e intrighi. E la sua leggenda è consegnata alla storia.