“Coltivare la biodiversità” è ormai diventato l’auspicio di una grande porzione di coltivatori della terra, quella schiera di persone resistenti al pensiero dominante che in ambito agricolo, per ormai un cinquantennio, ha spinto ad ogni costo la crescita della produzione agricola.
Purtroppo l’avvento della chimica e allo stesso tempo delle nuove scoperte del miglioramento genetico vegetale hanno contribuito a stabilizzare il sistema della politica agricola mondiale su pochi pilastri influendo fortemente sul destino del pianeta. Produttività, grande distribuzione, industrializzazione del prodotto sono ormai gli elementi che connotano il sistema alimentare globalizzato nei paesi occidentali e non. Il problema della fame mondiale ha giustificato l’imposizione di modelli di produzione e di aiuto ai cosiddetti “paesi in via di sviluppo” che hanno danneggiato fortemente l’ambiente e consentito lo spreco di cibo. Se da una parte si è lavorato per combattere la fame nel mondo dall’altra si è innescato il meccanismo delle eccedenze.
Nel mondo ogni anno il 30% di quello che l’agricoltura produce, un miliardo e trecentomila tonnellate, diventa direttamente un rifiuto. Ma quali sono le colture che si producono di più nel mondo? Quali sono le colture realmente più redditizie? E sono effettivamente quelle più prodotte nel pianeta le più nutrienti per sfamare l’intero pianeta? Quanto è il costo economico, sociale e ambientale di queste produzioni?
Queste e molte altre domande sono anni che mi arrovellano occupandomi di agricoltura, ma ho trovato alcune risposte interessanti scoprendo, dopo molti anni, un recentissimo libro firmato da un mio docente di miglioramento genetico vegetale. Ricordo che noi studenti lo rincorrevamo a lezione con scarsa fortuna poiché spesso si trovava in missione in Siria, all’epoca luogo ideale per noi ricercatori appena laureati sia per la sua rinomata bellezza ambientale, che per le grandi prospettive di lavoro. Il campo, per noi agronomi, era di estremo interesse poiché era in rapidissima evoluzione dopo le recenti scoperte scientifiche dell’ingegneria genetica.
Dopo trenta anni di lavoro nell’entroterra di Damasco, terra in cui l’autore si trasferì a partire dagli anni ’80, con una scelta radicale che lo proiettò da una sicura aula universitaria alle campagne coltivate a orzo, grano, lenticchie, ceci, olivi e pistacchi, ci fa partecipi di una sua grande e illuminata intuizione, partorita con anni di lavoro sperimentale gomito a gomito con i contadini siriani. Il suo motto è “mescolate, contadini, mescolate” ma sotto questa aspettativa c’è il lavoro di miglioramento genetico partecipativo che incredibilmente ribalta le prospettive del paradigma che muove invece la rivoluzione verde.
Con quest’ultimo termine coniato “nel marzo del 1968 da William S. Gaud, direttore dell’Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale” si intende l’effetto di una strategia di sviluppo agricolo basata su nuove varietà, ampia irrigazione, uso di fertilizzanti e pesticidi, elevata meccanizzazione. Il paradosso che sta alla base del modello di coltivazione secondo i criteri appena detti è dimostrato dal fatto che è esattamente “il contrario di ciò che i contadini avevano fatto per millenni”. Venne così smentita la convinzione bizzarra che se una varietà va bene in condizioni ottimali va poi bene dappertutto!
L’intento dei centri di ricerca istituzionali (appartenenti a CGIAR - Consultative Group for International Agricultural Research) era quello di introdurre varietà molto produttive esigenti in termini di piovosità e buona fertilità del suolo. Le necessità di queste varietà di cereali – a volte di provenienza geograficamente diversa - erano soddisfatte quindi con le irrigazioni e l’apporto dei fertilizzanti e dei pesticidi, con grandi oneri di investimento colturale proprio in zone depresse economicamente e con problemi ambientali (siccità e pochi mezzi tecnici a disposizione). Se dopo la crisi degli anni ’60 la carestia mondiale fu tamponata con numerosi progetti di cooperazione basati principalmente su questo schema, successivamente le problematiche si evidenziarono con pesanti ricadute sull’ambiente (inquinamento), sull’economia locale (non potevano permettersi ogni anno acquisti di sementi nuove né prodotti chimici) e sulla biodiversità, proponendo, in sostituzione delle varietà locali, quelle delle società sementiere molto uniformi geneticamente e meno resistenti alle avversità e alle condizioni locali (cioè zone aride e semiaride poco fertili).
Tutto questo avvenne in Medio Oriente, in Africa, in India e le conseguenze di quei progetti all’insegna del consumo idrico e dei fertilizzanti, nonché delle varietà nuove poco adattabili, si riscontrano ancora oggi con le crisi idriche, la produzione di organismi geneticamente modificati (OGM) molto più costosi delle varietà locali per secoli reimpiegate dai locali. A tale modello l’unica alternativa, che ha reso consapevoli di aver perseguito obiettivi miopi una buona fetta di ricercatori dei Ministeri dell’Agricoltura e degli Esteri presenti in diversi paesi, è quella del miglioramento genetico partecipativo. In cosa consiste?
La strada da intraprendere è in realtà molto semplice: i contadini sono spronati dagli stessi tecnici e ricercatori del settore a seguire le loro parcelle di campi coltivati a orzo, frumento e altre colture facendo esattamente come la tradizione gli aveva sempre indicato: selezionare dalla raccolta del seme quegli individui che nell’annata erano più desiderabili per quanto riguarda la produzione e la resistenza alla siccità, all’allettamento (quando la pianta si piega prima della maturazione), agli attacchi di insetti o di funghi. Inoltre questo tipo di progetto, che ha avuto successo in Siria, ha visto il coinvolgimento di centinaia di famiglie affinché la selezione dei vari semi dai vari campi portasse un grande patrimonio di semente che poi avrebbe in parte costituito dei nuovi miscugli selezionati come mescolanza dei campi di diversa provenienza locale.
In questo modo ecco l’intuizione dell’agronomo Ceccarelli: creare popolazioni evolutive ovvero nuove varietà provenienti da una miscellanea di varietà diverse (ad esempio di orzo o di grano duro) portatrici di differenti corredi cromosomici, ovvero patrimoni genetici, quindi più adattabili, più ricchi di caratteri specifici (produttività, resistenza alla siccità, alle basse temperature come alle altre, all’allettamento, ecc.). Un esempio eclatante dell’importanza della conoscenza della specificità dei luoghi e delle tradizioni prima di esportare semi si varietà dal nostro Occidente è quella portata avanti nella coltivazione dell’orzo.
Nell’entroterra della Siria dell’orzo vengono usati sia il seme sia la paglia. Le pecore dopo la mietitura vengono fatte entrare nei campi cosicché possano brucare e mangiare sia la paglia sia la granella caduta a terra. Questo orzo deve avere una paglia morbida non rigida, come le varietà coltivate da noi in Occidente, perché ferirebbero la bocca degli ovini che non potrebbero più fare il loro lavoro. Alcuni ricercatori inglesi furono fatti camminare nei campi di orzo appena mietuto a piedi nudi! Solo allora capirono che le varietà nuove imposte in quei luoghi erano qualcosa di sbagliato e di controproducente per l’economia locale altro che produttività migliorata.
Più che fare ricerca davanti a un personal computer sostiene Ceccarelli è stato fondamentale vivere e condividere momenti di vita con i nomadi di quelle terre aride e imparare i loro i saperi e le loro tradizioni millenarie che erano alla base dei principi della scienza del miglioramento genetico, con una visione però più complessa in grado di adattarsi alle specificità del luoghi alle memorie locali, informazioni indispensabili per un ricercatore illuminato. A Builder, nella campagna di Damasco il guru delle mescolanze di semi ha sperimentato per la prima volta migliaia di tipi di orzo diversi “con la speranza di trovarne qualcuno che se la cavasse abbastanza bene anche in quelle condizioni estreme, perché era proprio in quelle condizioni che praticare l’agricoltura era molto rischioso”.
Fu in quell’occasione che si salvarono gli antenati selvatici dell’orzo… i più resistenti! Sarebbe stato un gran danno perderli per sempre soppiantati da qualche promettente varietà europea.