La Sibilla con bocca delirante dice cose di cui non si ride, non abbellite, non profumate e con la sua voce oltrepassa mille anni per il divino che è in lei.
(Eraclito di Efeso, Frammenti, ovvero aforismi oracolari, VI-V sec. a.C.)
Così non bisbiglia senza virgole la fanciulla il cui petto riceve il seme del dio nella cattedrale d’alberi che le fa da caverna su cui assisa e ancorata partorisce la parola che non va pronunciandosi salda.
Nel grembo sgrana il suo rosario di melagrana, mentre la ruggine del tempo non intacca il rosso delle sue stagioni.
Accompagnata nella notte dalle piccole luci vagabonde della civetta, bianche come la conoscenza antica, ambigue come il mistero dell’al di qua.
Con le sue chiavi apre porte… Costruisce un ponte tra mondi, tra le colonne del tempio di Salomone si fa Chiesa di Natura, partoriente d’altura e maestra delle radici dei tempi.
L’aura della profetessa è un anello nuziale: una serpe aurea, che attorcigliata, le cinge a pennello il capo lunare. Una tiara che la fa sposa e regnante in forza e giustizia, in sacrificio dei regni sottili.
Colei che guarisce, come donna herbana, è colei che sa con velo da suora e sguardo di fiera. Seduta come una pesante monaca senza più fede, si mostra di corteccia appollaiata sulle tenebre per illuminare con lo sguardo il sentiero biforco degli eremiti.
I libri che ha scritto la Papessa invitano chi guarda, a scorgere, ad ascoltare la legge dell’intuizione, una dua trina quadra, che ritorna come le maree e indica il sentiero del grano: la via per la conoscenza del bene, che è bellezza nell’attesa del farsi incontro, sempre bambino dopo la morte dell’attesa stessa.
Un invito al sacrificio col sangue per un dono ubiquo di fertilità, che è di tutti e di nessuno.
Come la roccia che raccoglie la goccia dal cielo, s’ingravida e s’erode e beve e piange Agados, l’indomito androgino. Tal essere feconda il mondo e semina monoliti giocando con uova calde di mani e pugni stringenti segreti scosciati, taciuti dal fuoco... Così il prometeico danza, così il minuscolo titano fa l’amore e istruisce la donna e l’uomo circa il silenzio delle montagne, dei boschi, delle acque, del creato e dell’increato.
Racconta della figlia risucchiata dal narciso e della madre sofferente che ha calato l’ombra dei lunghi inverni, della caduta delle foglie, dei fiori appassiti, dell’ingrigimento della tela in un triste monocromo riluttante all’accettazione. Il rifiuto di una calma furiosa: la morte apparente di un respiro in apnea, dove solo il caos trova equilibrio.
La madre vergine che conta i chicchi del bene e del male partorisce la sua famiglia di pietra e ne fa un altare, da cui predica invasamenti e assiste alla partita a scacchi tra B e J giocata sul pavimento delle umane genti.
La sua mantica è figlia del vento e sua concubina; piena del soffio erotico se ne libera traducendolo in oracolo, poiché:
Sibylla […] dicitur omnis puella cuis pectus numen recepit [1]
Come guardiana sta all’ingresso di quella dimensione dove l’antro si fa profondo e temibile. Attende l’eroe come l’Enea che a Proserpina offre il ramo d’oro della foresta incantata.
L’anima di chi l’interpella e l’ascolta dovrà purificarsi attraverso gli elementi per ricercare la purezza delle origini, dovrà bere dal Lete per dimenticare e così riaffiorare alla luce dopo un annegamento estatico.
La sua eco è un invito ad attraversare i due portali del sonno; lungo il tragitto ella ti fissa e ti guida roteando gli occhi fermi e immobili a fessura. Come assente la veggente scrive e non scrive su foglie di palma, nella sua bocca embrioni si dischiudono…
Necromante evoca e cova gli spiriti senza pace con il suo magico anelito di vita.
Allora a te parlo, Virgo, favoriscimi il passaggio
Aiutaci a traghettare
Risorgici tutti
Dammi la chiave che il gatto farà cadere
Predici in questa guerra la pace che ci spetta
Ascolta, oh posseduta, la mia prece e non essere chiara… sii sibillina come le serpi d’estate, stridente come le cicale al tramonto, guida come le lucciole stanche. Fa che io mi perda ancora una volta come le pelose falene con la luce senza artifici. Sii la mia bilancia senza pesi né misure…
Di’ che ritornerà, che ritornerò, che ritorneremo!
Ticchetta senz’orologio
senza domani in un eterno presente
senza più battaglie su questo campo
senza più morte
Indicaci la strada
per tornare
all’utero
Ibis redibis numquam peribis (in bello) [2]
E.B.P
- Giacomo Filippo Foresti, Supplementum Chronicarum - liber IV, XV sec. Traduzione: “… e l’utero di sua madre sarà la bilancia di tutti”.
[1] Servio Mario Onorato, Commentarius in Aeneidem, IV- V sec. d.C.
[2] Alberico delle Tre Fontane, Chronicon, XIII sec. Traduzione: “Andrai ritornerai non morirai (in guerra)”.