Ginieffa coccolava i picciriddi con le pannocchie, i melograni, le castagne e d’inverno, intorno al braciere, non raccontava favole di principi e principesse, ma storielle di mare. La mamma dei saraghi, per esempio, un giorno riunì i saragotti per metterli in guardia dalle insidie di un boccone prelibato appeso a un amo e dalle reti a rombi tutti uguali. In quel mentre, un pescatore con un rezzaglio catturò la famigliola intera. “Mamma, mamma, urlarono i saragotti, e questo cos’è stato?”. “Un colpo dall’alto” fu la risposta lapidaria di sarago madre.
I colpi dal cielo, malgrado le cautele, non si possono evitare, è dei campioni della vitalità sapersi destreggiare nel disastro. Genoveffa Collica, Castell’Umberto, Messina, 1874, vedova a ventisette anni a causa del terremoto di Messina che fra novantamila persone si prese pure suo marito, due bambini da allevare, Rosario e Filippo, apparteneva alla stirpe degli indomabili e per questo nel borgo marinaro di San Gregorio a Capo d’Orlando, che ne vide le gesta di amazzone della quotidianità, ancora se ne parla. Se ne parla pure in collina da dove gli aristocratici scendevano alla spiaggia a godersi i ricci che Genoveffa offriva a tutti. Renato Trassari della nobile città di Naso, portamento altero, sguardo lampeggiante e persino dolce se non si dicono fesserie, la ricorda con stima: “Una donna ‘uomo’, comandava i pescatori. E le obbedivano, eh”.
È Sarino Damiano, suo pronipote, a dirci chi era. Vedremo in quest’articolo chi è lui perché non è semplice esaurirlo nella parola chef, anche se è uno chef al quale ci si abbandona, a dispetto delle proprie diffidenze. Il piccolo arancino di riso al nero di seppia l’ha creato e brevettato lui e ora glielo chiede anche chi detesta quell’inchiostro di mare, inquietante da vedere e acuto di sapore. “Nonna Genoveffa era una pescatrice. Sì, andava personalmente a pescare, con l’immancabile fazzoletto al collo, aveva quattordici barche a vela sotto la sua direzione. Per mare uscivano i dieci figli di suo fratello Giuseppe: a pescespada, triglie, acciughe, saraghi, occhiate. Con il tremaglio, rizzella in dialetto, il palangaro, conzo in dialetto, e la menaide per acciughe. Era sola quindi: o aveva pugno o aveva pugno. E ce l’aveva! Si era guadagnata un grande rispetto, anche per l’accoglienza che faceva sia ai pescatori di altre marinerie che ai signori di Naso”. Le volevano bene un po’ tutti, gente di ogni ceto sociale e la omaggiavano con i primi fichi e le prime ciliegie carichi di zuccheri e riconoscenza, perché garantiva la pesa delle merci da imbarcare sul Marco Polo, il battello della Florio e Rubattino che navigava da Genova a Palermo e faceva scalo proprio nelle acque di San Gregorio, dove ora giace relitto. La Marco Polo era stata una nave da guerra yugoslava, ma ai tempi di Genoveffa caricava bozzoli di baco da seta, cereali e formaggi. Il baco da seta veniva allevato in tutta la zona, da Ficarra a Sant’Agata di Militello, sostituì la canna da zucchero e fu soppiantato dai limoni. Nella baia di Flic en flac a Mauritius c’è la canna da zucchero proveniente da San Gregorio.
“Nonna Genoveffa era sempre di buonumore, spiritosa e… manesca - continua Sarino -. Una volta mandò dodici giorni all’ospedale un carrettiere (con il carro trainato da cavallo o mulo n.d.r.) e un carraro (con il carro tirato dai buoi n.d.r.) che avevano picchiato suo figlio Rosario, mio nonno. Siccome il marito era basso e lei era un donnone, lo faceva camminare sull’asino per non farlo sfigurare. Parla di lei anche lo scrittore Vincenzo Consolo che la descrive come una megera capace di tagliare le trombe marine e ricorda di quando il poeta Lucio Piccolo, riflessivo, di media statura con i baffi, si appartava a parlare con donna Ginieffa”.
Sarino aveva nove anni quando lei morì a 87 anni, nel ’61: “Ero discolo e se in casa c’era odore di botte mi rifugiavo da lei che amava i bambini e prediligeva i maschi”. Prima della Tartaruga, il regno di Sarino, dei suoi ragazzi (tre figli e cinque nipoti) e di sua madre Marianna, aspetto soave e occhio al quale non sfugge nulla, c’era un dammuso con un filare di fichi d’india che divideva la proprietà dal mare. Genoveffa lo comprò con il gruzzoletto che i figli Rosario e Filippo, mandarono dall’Australia e da Filadelfia, dove erano emigrati. “Il diritto di passaggio era all’esterno dei fichi d’india, ma se c’era mare qualcuno voleva passare con prepotenza dall’interno e Genoveffa non sopportava la prepotenza e quando quel qualcuno minacciò di andare dal podestà di Naso per denunciarla con il pretesto di botte mai ricevute, lo aspettò nella strada Rilievo o Cerasa e gliele suonò: “Così adesso potete dire davvero che vi ho picchiati”. Il giudice li condannò: “Ginieffa menzogne non ne dice”. In un’altra occasione, infuriata con il muratore Vento che rifece male il tetto di calce e canne, Ginieffa si rivolse direttamente al giudice supremo intimando a Cristo in croce: “Se siete veramente Dio, dovete farlo morire in ventiquattr’ore”. E quello morì.
Non stupisce dunque che con un’eredità simile, quando sul fare degli anni Novanta la malavita si presentò alla porta dei Damiano trovò tipi temprati, che si opposero con naturalezza: “La battaglia contro il racket mia e di Melitta (la sorella morta troppo giovane ed eternamente pianta , umanissima, apprezzata e tosta come la nonna n.d.r.) è nei geni. La denuncia è stata una scelta di civiltà, anche per lasciare ai figli un futuro senza padroni. Il 7 dicembre del 1990 abbiamo fondato l’Associazione commercianti e imprenditori orlandini ACIO della quale ora sono vicepresidente, e che ho presieduto dal ’94 al 2004”. La soddisfazione è stata più forte delle pene e dei timori: “Lo rifarei subito e mi preme dire che dopo l’ACIO sono nate almeno cento associazioni in Italia basate sullo stesso sistema: la denuncia”. Sua moglie Daniela Trifilò, medico, fiera del marito al quale ha sempre dato l’appoggio, ha raccontato l’esperienza in Pagine di vita, pubblicato da Armenio.
Sarino racconta che se è siciliano, e non australiano, e vive nella sua Sicilia, lo deve a nonna Genoveffa: fu lei che convinse il nipote Carmelo e la sua sposa Marianna a non andare a Sidney per la pesca del gamberetto di fiume, ma a restare a San Gregorio dove nel 1952, nel suo appezzamento di agrumi nacque la Tartaruga night. “San Gregorio era il luogo di festa, raggiunto via mare o via ferrovia: la Pasquetta si passava qui mangiando coddura con le uova e pasta al forno. Mio padre Carmelo nel ’57 costruisce il night con altri giovani di Capo d’Orlando. Il night aveva la pista ottagonale e al centro un piccolo ottagono. In una giornata piovosa di maggio comparve dal mare una tartaruga, una caretta caretta, la presero al secondo tentativo e avendo l’esperienza dell’Australia, sapevano cucinarla: se la mangiarono, allora non c’era il politically correct, lucidarono il guscio e lo attaccarono al muro del night e nell’ottagono al centro della pista fu disegnata una tartaruga. A cantare vennero tutti: il primo fu Nicola Arigliano, poi Giò Sentieri, Fred Bongusto, Sergio Endrigo, Nilla Pizzi, Ornella Vanoni, Anna Identici, Caterina Caselli, Michele, Ninì Rosso. Nel 1963 Gino Paoli, innamorato del posto e della Sandrelli, scrisse Sapore di sale”.
Con l’avvento del juke-boxe, nonna Genoveffa arricciò il naso: “Cose dei diavoli qui non devono entrare” commentò, proseguendo la sua vita con i suoi sistemi, fra le giare dell’olio teneva un rospo con un orecchino d’oro portafortuna. E il suo motto fu sempre: “Questa è la casa di chi lavora, mangia”. L’istituzione della mostra Vita e paesaggi di Capo d’Orlando portò a San Gregorio anche gli artisti Zancanaro, Guttuso, Migneco, Omiccioli. Dalla discoteca alla trattoria (1959) al ristorante (1963) e nel 1973 l’albergo.
Carmelo aveva fatto il militare a Milano, accompagnando un cieco di guerra, e lì aveva imparato a fare il gelato, nella latteria dalla famiglia Paina, originaria della Carnia e nel ’47 era andato a nozze con Marianna che ricorda: “Il giorno della presentazione per me fu una gioia: era magro portava un cappello Borsalino e un cappotto di cachemire, pareva un principe davvero. Ci innamorammo subito. Era talmente innamorato che a mare vedeva me e non i pesci”. Ricette speciali vennero dall’esperienza dell’unica cooperativa italiana composta da braccianti agricoli e pescatori, minestre di terra e di mare: fave con la testa di cernia (diventata piatto del buon ricordo) e piselli con le sarde. Il finocchietto a profumare. Carmelo ci teneva a fare bella figura e usava i prodotti migliori, come la cioccolata dall’Olanda. “In questa famiglia cucinano i maschi. Nel ’73, a causa di un’operazione alla cataratta, se n’è uscito lui dalla cucina e sono entrato io. I segreti? Materie prime, l’inventiva, la lettura e l’aver viaggiato moltissimo. Ho il mio orto e mi piace mangiare. Sono sempre alla ricerca di cose nuove da coltivare, le ultime: pomodoro di Belmonte, tè verde”.
Si ferma, come a troncare i racconti, le esperienze, l’impegno, le memorie. Sorride: “Io, per me, sono rimasto un marinaio”.