So di un luogo nel quale la giovane sposa che vuole rimanere gravida si reca ogni giorno per ascoltare la voce che, attraverso la Natura, lo spirito creatore le invia. Come in un rito, ripetutamente, ogni giorno la donna torna in quel luogo fino a quando il suo orecchio comincia ad udire dei suoni che, come per incantesimo, lei inizia a cantare. A mano a mano che il suo canto prende forza tutto il villaggio, tutti quelli attorno a lei cominciano ad intonarlo imitandola così da chiamare lo spirito risonante che verrà accolto, si incarnerà e conserverà nel proprio cuore quel canto che resterà per sempre “il suo”.
Solo ascoltando e rispondendo ad esso quella creatura potrà essere in armonia con l’Universo che ha assegnato a quel corpo quella sonorità che ne è la voce riconoscibile fra tutte le altre.
Non so dire se questa bella storia sia africana: l’ho ricevuta da un’amica musicista e, come accade nel passaggio di memoria da donna a donna, ne ho ricordato soltanto la meraviglia e il prezioso insegnamento ovvero la consapevolezza dell’inscindibile legame che ci unisce alla potenza creatrice che dà vita ad ogni essere secondo un disegno di armonia al quale è nostro compito restare fedeli.
È facile sentirsi attratti da questa fedeltà che è bisogno di rispondere con animo sincero al richiamo della nostra natura profonda, che è desiderio di accordarsi con la nostra impronta originaria per sentirci in equilibrio, di trovare le ragioni del nostro essere come siamo. Una parola che si fa voler bene, che pronunciamo senza sospetto, che non associamo ad alcuna aggressività, alla quale con fiducia attribuiamo intenzioni positive, che ci sembra contenere generosità, magia, fiducia e condivisione.
La fedeltà sa presentarsi con garbo, rimanda alla gioia di conservare sentimenti che durano per sempre, strizza l’occhio al nostro mai placato desiderio di far durare ogni cosa in eterno, impegnati con ogni mezzo a contrastare quell’impermanenza che continuamente sembra turbare la nostra speranza di non perdere mai nulla di ciò che abbiamo conquistato, di non essere mai abbandonati e di non dovere mai abbandonare le nostre rassicuranti certezze.
La fedeltà si autocelebra quando in suo nome si rimane saldamente ancorati a situazioni impossibili, che faticano a respirare, che vorrebbero aprire il cuore a nuovi orizzonti. Lei, la fedeltà, sa immolarsi e rimanere caparbiamente avvinta alla propria fede, a qualunque costo.
Un valore sacrosanto quello della fedeltà che sa essere autorevole e degna d’onore quando si lega all’eroismo di chi è pronto a sacrificarsi per cause edificanti e meritevoli di abnegazione e di rischio, cause per le quali ancora si chiede di giurare con promesse solenni che chiamano in causa il divino.
Eppure, a ben guardare, scopriamo che anche questa parola quasi impeccabile nella sua forma aggraziata, capace di trovare sempre un posto di riguardo nelle conversazioni e di innalzarsi sul podio del “ben dire” e forse anche del “ben pensare” nasconde inquietanti segreti.
Non possiamo infatti non ricordare che la fedeltà è diretta emanazione di quella fede che “richiede l’adesione incondizionata della mente e dell’anima alla sua verità”.
E non possiamo non pensare a quanto sia facile scivolare dalla fedeltà ad un ideale verso l’integralismo dell’ideologia che rende difficile accogliere il pensiero della differenza dal momento che il patto stretto dal fedele con il proprio credo fatica a contemplare la possibilità della difformità, talora persino dell’esistenza dell’altro.
Per sostenere le proprie ragioni la fedeltà si imparenta con la coerenza, un’altra parola rischiosa poiché “aderire” (è il latino coherere) ad una linea di condotta senza mai cadere in contraddizione con i propri principi fa nascere il dubbio che il margine di devianza garantito ai comportamenti altrui sia estremamente ridotto nonché il timore che la tolleranza non abbia vita facile.
La fedeltà si fa rischiosa. Come tante parole delle quali si è appropriata la morale comune, diviene discriminatoria, portatrice sana, o forse insana, di quel dualismo tra bene e male che ha esercitato ed esercita il suo dominio sul pensiero dell’occidente e ancor più sulla teologia: se c’è un fedele è ineluttabile che ci sia un infedele dal quale difendersi quando non da combattere.
Per aderire alla fede si è pronti ad uccidere la propria coscienza, ad infrangere quella originaria consonanza di note differenti , capaci tutte di concorrere all’armonia, per salvare un’immagine di sé, un modello, una maschera indossata come forma di protezione, come sicura certezza di appartenenza.
Ed ecco che la fedeltà comincia ad accogliere, ad alimentare il seme della disonestà poiché, pur di non dover scegliere, di non dover ammettere errori o perdonarne, pur di non dover cambiare o rinunciare, ci si abitua alla menzogna che copre ogni dubbio, che elimina ogni ripensamento.
La fedeltà diventa adesione incondizionata ad un’idea; la regola, accettata con scrupolo, vale al di là di qualunque richiamo o suggerimento possano venire dalla mente o dal cuore.
Ricorda Luciano Canfora in un suo recente, acuto intervento sulle responsabilità dei monoteismi, che anche nella democratica Atene una giuria popolare mandò a morte Socrate con l’accusa di “non credere agli dei della città” ovvero di non essere fedele al sistema in equilibrio tra religione e potere politico.
L’intolleranza ha radici lontane, ma anche la tolleranza è parola ambigua: è la faccia pulita del rifiuto, ma quel verbo latino tollere, che è “sopportare”, che ne sta alla radice, svela già il suo volto meno benevolo. Se la tolleranza è “capacità di sopportare senza lamentarsi, con pazienza cose spiacevoli, dolorose o dannose” chi stabilisce che cosa sia sgradevole, pericoloso, poco accettabile e che cosa no? Se ammettiamo già che ci sia un giudicante che deve sopportare e un giudicato che deve essere tollerato allora qualcosa non va: non si gioca con lo stesso numero di carte.
Se proprio vogliamo continuare ad usare questa parola dobbiamo connotarla di nuovi significati, dobbiamo trasgredire la regola lessicale e non solo, oltrepassare il limite posto dall’etimologia e pensarla come “una visione profonda di benevolenza che tiene vivo l’amore che è un’energia molto delicata, che si distrugge facilmente lasciando posto alla rabbia, alla gelosia, all’invidia e, infine, all’odio”.
Ci sono parole che hanno bisogno di essere ripulite dai modelli ai quali fino ad ora si sono uniformate, liberate dalla polvere secolare di fraintendimenti, menzogne, imposizioni, sopraffazione e dobbiamo prenderci la responsabilità individuale di farlo, se necessario provando ad inventarne di nuove poiché la lingua è un organismo vivo e deve anche sapersi mettere in gioco e, perché no, correggere i propri errori, perdonare le proprie colpe e chiedere perdono.
Mi piace allora guardare alla fedeltà come ad un costante bisogno di metterci in ascolto della voce del nostro cuore per accordarci al canto dell’altro in un permanente e durevole sentire di pace.
Alla coerenza voglio pensare come ad una opportunità di dedicarsi con pienezza a realizzare un sogno sempre diverso, responsabili di vivere il cambiamento con costante e sicura libertà.
E che la tolleranza sia il piacere di cercare nell’altro anche il più piccolo seme del bene al quale unirci con aperta e sincera condivisione, che sia la gioia di ripulire i nostri atteggiamenti mentali che sono strettamente connessi ai nostri sentimenti così che sia il cuore ad accogliere anziché la mente a cercare insidiosi motivi per sopportare.
Quando vedi la qualità dell’altro allora puoi essere libero di rapportarti con lui, allora puoi percepirne il suono, puoi vederlo e ascoltarlo per ciò che è: così puoi ritrovare la tua coerente fedeltà alla nota originaria.
A cura di Save the Words®