Nell'attuale panorama culturale edificato sopra il pantheon delle star, dei bestseller o delle top ten, le mode condizionano irreparabilmente il modo di percepire, sentire, concepire l'arte, dettando il comportamento della nostra società e adeguandolo alle leggi economiche della produzione e del consumo. A questo incalzante succedersi di tendenze non sfugge nemmeno la critica, molto spesso impegnata a stimolare il superamento delle posizioni raggiunte e ad affrettare l'obsolescenza degli stessi prodotti di cui aveva prima sponsorizzato il successo. È poi evidente che al processo di mercificazione dell'arte (lo aveva già intuito Adorno in tempi non sospetti) soggiace anche e soprattutto il mondo della musica, dove l'industria discografica attribuisce ai suoi prodotti valori estetici fittizi plasmando così il gusto e le abitudini dei consumatori.
Tuttavia, ci sono percorsi artistici che nascono e maturano all'ombra dalle cosiddette luci della ribalta, esperienze che rifuggono le dinamiche del mainstream, la vanità delle mode, gli stereotipi e i troppi cliché del mercato, a favore di una ricerca pura, autentica, personale. È il caso di Sandro Sainati, compositore livornese che non ha mai prestato la propria creatività alla cultura di massa, preferendo muoversi in un universo intimo e appartato. Eppure, il suo percorso artistico è cominciato parecchio tempo fa, e a distanza di circa un trentennio – cosa più unica che rara per un musicista che di anni ne ha soltanto quaranta – vanta una miriade di splendide produzioni in studio, live, collaborazioni e performance di ogni tipo. In questa fucina imprevedibile la musica ha spesso dato vita a elaborazioni parallele (grafica, collage, pittura, doppiaggio e svariati altri linguaggi) e qui sono nati anche progetti ambiziosi come il Pisaimprovvisa, un'importante rassegna musicale che ha visto alternarsi svariati strumentisti, o Musica Reattiva, una collana dedicata alla rivisitazione sonora di tradizioni culturali antiche.
Apparso dopo un lungo periodo di gestazione, Sebo è un lavoro complesso e articolato, un album talmente pieno di idee che avrebbe potuto fungere da serbatoio per un'intera discografia. È un caleidoscopio di umori, ora impalpabili ora compatti, un fluido compendio che entro lo spazio predeterminato dei suoi due cd sembra voler raccogliere un orizzonte sonoro vasto e inafferrabile.
Il brano di apertura – contrassegnato come gli altri dalla sola indicazione numerica – è una dichiarazione di intenti: sopra un lento scalpiccio di note, un pianoforte riecheggia misterioso e sfuggente, avvolto dal fascino di un riverbero che lo rende lontano e indeterminato; ma è questione di un paio di minuti appena, e uno straniante arpeggio di synth irrompe in assolvenza, seguito subito dopo dalla batteria; da qui in poi è un'escalation di rapide incursioni sonore che illuminano a sprazzi lo scarno incedere della ritmica, sino all'inevitabile implosione degli ultimi accordi. Il secondo brano è scandito invece da un rimshot cadenzato, base ideale per le pulsazioni di un basso continuo, gli svolazzi del sintetizzatore e le coloriture polifoniche di sottofondo. È di certo il preludio al temerario andamento della terza traccia: batteria e basso disegnano un groove provocatorio e surreale, che nella seconda parte viene poi attraversato da interferenze cosmiche, disturbi, gemiti, e un insospettato finale denso di fraseggi in tonalità minore.
Pur lasciando intatto il potenziale espressivo e la forte personalità del disco, il quarto brano rimanda ad atmosfere più marcatamente cinematografiche, quasi gobliniane, con un synth che gocciola melodie tormentate e impalpabili, mentre immaginiamo già la sagoma dell'assassino fra le pieghe di una tenda di velluto rosso! Il quinto brano – che in origine era intitolato Anamorphic Status – è una breve incursione in territori di poliritmia elettronica e contrappunti, dove ai beat sincopati e irregolari si appoggiano le digressioni rapide delle tastiere e il tocco etereo del Fender Rhodes. La traccia successiva chiude magistralmente il primo disco, rimescolando in un'unica soluzione i molti ingredienti utilizzati in precedenza: avanguardia, palpitazioni ipnotiche, melodie oblique e visionarie, continue fluttuazioni armoniche e su tutto la capacità di amalgamare una materia così eterogenea e ricondurla entro una mirabile stabilità delle parti.
La breve traccia che apre il secondo disco ci immerge ex abrupto in un groviglio di partiture astrali, anticipando in qualche modo i fasti di quella successiva. Il capitolo seguente si estende infatti per oltre 24 minuti, fra introspettive sequenze di basso, passaggi insinuanti, deflagrazioni, caos, rumorismi e una lunga impalpabile chiusura schulziana. Il brano numero tre riporta improvvisamente a galla le fascinazioni cosmosintetiche di certe produzioni library: inizia con un ammaliante arpeggio rétro, in mezzo una solida architettura di basso dal suono pulsante, e un inseguimento di hi-hat che non dà tregua fino alla dissolvenza finale e al ritorno magico dell'arpeggio. Il brano successivo ha lo stesso retrogusto, ma la batteria ossessiva e martellante ne scandisce l'andamento in modo pressoché marziale, quasi alla Cluster seconda maniera. Il quinto brano conferma appieno l'assorbimento e la riformulazione della kosmische Musik, e dietro l'apparenza di un'andatura regolare nasconde invece un minuzioso lavoro di incastri e cesellature che solo in chiusura lasciano spazio a una certa tendenza ambient.
La penultima traccia sembra invece recuperare certe atmosfere cinematiche del primo disco, ma verso metà brano accade l'inverosimile: una fiammata tribale di percussioni sintetiche invade il gelido paesaggio sonoro, lo sovrasta per un attimo con l'aiuto di un piano funkeggiante, in attesa che il clima iniziale torni a riassestare tutto in un pericoloso e adrenalinico equilibrio di ritmo e melodia. L'ultimo brano è scandito da una batteria minimale che pian piano prepara il terreno ai ricami di un sintetizzatore iper-riverberato: è un finale esotico, un viaggio in territori inesplorati, la sonorizzazione ideale di un'ideale Mille e una notte elettronica e struggente.
Sfumate le ultime note si può rimanere inebriati, sorpresi, increduli o persino confusi, ma è certo che i tredici brani dell'album non possono lasciare indifferente l'ascoltatore. Sebo è un turbinio di invenzioni rigorosamente analogiche, un immenso vivaio di idee, una miniera di creazioni ritmiche, di arie trasognate, melodie galattiche, rumori, sibili, sospiri, tintinnii. È un lavoro di assorbimento e citazioni, un prodigioso amalgama di stili, dal kraut più fulminante all'acid-house degli esordi, dal funk(!) nero alle atmosfere estatiche dell'ambient, dalla new wave più fumosa alle sperimentazioni concrete di Cage e Maderna. Un album astratto e allo stesso tempo materiale, interiore e immaginifico, e come tale capace di evocare immagini, forme, suggestioni, in grado di coagulare i sensi o scioglierli nelle mille screziature di un mosaico.