È dedicata a uno dei più importanti fotografi della scena italiana e internazionale, Mimmo Jodice, la grande mostra retrospettiva Attesa. 1960-2016, in corso al MADRE - Museo d'arte Donna Regina - di Napoli, quale omaggio al grande artista partenopeo. La rassegna a cura di Andrea Viliani si snoda attraverso un centinaio di opere, suddivise in diverse sezioni fra loro connesse, e lungo un percorso retrospettivo in cui si intrecciano il passato, il presente e il futuro, dentro a una dimensione oltre il tempo e la storia, sospesa nella condizione fisica e metafisica, empirica e contemplativa – dell’attesa.
Sì, l’attesa come ricerca paziente dell’illuminazione, in grado di rilevare l’essenza del soggetto rappresentato, o l’attesa come bilanciamento dei bianchi e dei neri in camera oscura. Ogni scatto è colto osservando la realtà in tutte le sue espressioni sensibili e trasfigurata in una realtà fotografica che coincide con la costante reinvenzione della fotografia stessa. Ed ecco che nella sala Re_Pubblica al piano terra è messa in scena, Teatralità quotidiana a Napoli, (2016), una selezione di immagini dalle serie dedicate, negli anni Sessanta e Settanta, alla città di Napoli: dalla registrazione di forme di aggregazione sociale, le feste popolari, alle condizioni di vita manicomiali e carcerarie, dalle dinamiche del lavoro in fabbrica, fra cui quello agli impianti di Bagnoli, e dalla denuncia del lavoro minorile o dei meccanismi di esclusione sociale alla vita di strada nei bassi e nelle periferie napoletane. In queste immagini Jodice restituisce il senso stesso della propria epoca e della propria città, con le loro irriducibili contraddizioni, e un’attenzione estetica che si traduce in impegno etico legato anche alle abitudini quotidiane e ai comportamenti collettivi.
Al terzo piano sono invece le ricerche sperimentali: in Vera fotografia (1979), l’immagine della mano dell’artista, intenta a scrivere a penna le parole del titolo, le riporta sulla carta fotografica come una vera scritta a penna. Sovvertendo l’interpretazione del mezzo fotografico Jodice sovrappone un elemento tridimensionale alla sua riproduzione fotografica (Ferrania, 1976, Carta d’identità, 1978, Vetro, 1978, Corrispondenza, 1979), così come strappa o accosta, diverse immagini fotografiche realizzando fantasmatici paesaggi che sono il risultato di inediti avvicinamenti spazio-temporali (Frattura, Paesaggio interrotto, Orizzonte, Strappi, Momenti sovrapposti).
Anche i corpi, assottigliando la loro pretesa consistenza e singolarità, mutano grazie a rispecchiamenti (Autoritratto, 1963, Autoritratti con Emilio Notte, 1972, Frammenti con figura, 1968) o giocando con i parametri e i meccanismi stessi di produzione dell’immagine fotografica (Nudi stroboscopici, 1966, o Studio per un nudo, 1967, in cui l’immagine finale viene “completata” dai provini delle altre sue possibili versioni). Fino a giungere all’autoanalisi sia del proprio strumento (Macchina fotografica, 1965) che degli innumerevoli accadimenti trasformativi in fase di stampa (Chimigramma, 1966). Lungo il proprio percorso artistico Jodice ri-fotografa non solo le immagini ma anche le estetiche di altri fotografi quali Richard Avedon, Bill Brandt, Walker Evans, André Kertész, Ralph Gibson, esplorando le possibilità di “dilatazione o restringimento, sviluppo o riduzione” fotografiche.
Ma il percorso fotografico di Jodice muove poi verso le radici culturali del Mediterraneo sino alle epifanie del quotidiano (Eden, serie del 1995). E ancora, ecco i volti e i corpi della Napoli contemporanea e i capolavori delle collezioni del Museo Nazionale di Capodimonte (Transiti, 2008), che si spingono nel nuovo ciclo Attesa, posto da Jodice quale approdo ideale della mostra ma anche, allo stesso tempo, quale suo fulcro generatore e suo eterno ritorno: nello spazio-tempo dell’attesa di un futuro che mai si compie, Jodice non riconosce più lo spazio o il tempo reali, ma li ricrea, mentre il mondo e la Storia, trasfigurati nel bianco e nero di un sublime mattino da camera oscura, sembrano essere ormai solo il ricordo di quello che erano, sono o saranno: il fantasma fotografico di un eterno istante dal mondo, di un suo giorno senza fine, in cui la maestosità caduca delle rovine di Palmira si trasfonde, per esempio, nella fragile imponenza delle Twin Towers di New York.
E per la prima volta ecco affiorare le fonti di ispirazione della sua ricerca: due capolavori dell’archeologia mediterranea (la scultura in marmo bianco del Compagno di Ulisse e il busto in bronzo di Artemide. La ferocia astratta di Eden oscilla fra la Natura morta con testa di caprone (1645-1650) di Jusepe de Ribera e la quiete delle nature morte di Giorgio Morandi, mentre i paesaggi di Jodice sembrano trovare accogliente assonanza nelle metafisiche piazze d’Italia di Giorgio De Chirico (La grande torre, 1932-38) o nei silenziosi, compendiari, minimali scenari cittadini di Mario Sironi (Paesaggio urbano, 1920), per uno scenario fotografico che vede in Napoli e nella figura di Jodice i grandi protagonisti della realtà artistica partenopea.
A Jodice hanno dedicato mostre personali alcuni dei più importanti musei del mondo e all’artista sono stati conferiti diversi riconoscimenti, quali nel 2003 il Premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei, nel 2006 la Laurea Honoris Causa dall’Università degli Studi Federico II di Napoli, nel 2011 l’onorificenza di Chevalier de l’Ordre des Art et des Lettres e, nel 2013 e 2016, la Laurea Honoris Causa dell’Università di Architettura di Mendrisio e dell’Accademia di Belle Arti di Macerata.