Dal 1° all’8 febbraio presso la Galleria degli Artisti, in via Nirone a Milano, Peppino Fusar-Poli e Renata Storari hanno esposto i loro quadri in una mostra davvero accattivante.

L’impatto con l’esposizione è molto intenso. Appena entrata nella Galleria vengo catturata da un effluvio di forme e di colori e calamitata verso le pareti traboccanti di quadri che reclamano di essere guardati e apprezzati; sul lato destro fanno l’occhiolino le opere di Peppino e su quello sinistro i lavori di Renata.

Si percepisce subito la differenza di mano, di impasto di colori, di scelta di soggetti, forse di fondo si percepisce la differenza tra un maschile e un femminile, da un lato colori forti, decisi, corposi, dall’altro colori più tenui, trasparenze, come sussurri. Nell’insieme non solo non si danno fastidio, ma si percepisce una sintonizzazione che permette un’armoniosa coabitazione.

E a proposito di armonia, mi si fa vivo subito il celebre pezzo di Musorgskij, “Quadri di un’esposizione”, e faccio la fantasia uditiva di essere accolta da quella splendida musica che come sottofondo risuona piacevolmente in me e che fa da nuvola sonora su cui danzano i dipinti.

Sull’onda del parlare-come-sognare prende voce una conversazione con Renata, Peppino e i quadri che, come un coro greco, raccontano di sé tramite la loro immagine e i loro autori.

Sono incuriosita dal titolo e chiedo …

Segno e sogno: una sola vocale fa la differenza tra i due termini, a suggerire il sottile passaggio del tratto di matita, tecnicamente concreto, alla scoperta graduale e suggestiva, sotto le nostre mani, del sogno che aleggia, nascosto, nella nostra anima. E cosa succede in voi, nel foglio da disegno e nei tratti che, a poco a poco, danno forma al sogno?

Gioia e fatica si alternano e si compensano a vicenda, quando pian piano l’immagine, non ancora ben visibile, si fa reale e irrompe in scena.

È il “Teatro della bellezza”, il momento felice dell’atto creativo, il raggiungimento di ciò che configura il massimo possibile personale per ciascun artista.

Ogni artista crea e vive il suo personalissimo rapporto con la sua creazione.

Sì, ognuno di noi ha un proprio “linguaggio”.

Un forte cromatismo, plasticità di costrutti e forme, sognante manifestazione e rappresentazione caratterizzano l’ “animus” di Peppino Fusar-Poli.

Vibrante contrasto di luce e ombra, in un percorso figurativo dell’ “anima”, riflesso e meditato, evocativo di suggestioni emozionali, rivela il vissuto personale artistico di Renata Storari.

I quadri raccontano la loro storia che si invera nello scenario dentro la cornice, come fungesse da quinta del palcoscenico. Ma narrano anche del loro autore, di quale sua storia ha voluto raccontare tramite i soggetti rappresentati e del rapporto che si è creato tra di loro, i piaceri, le agevolezze, ma anche i contrasti, le punte dure, le asperità, insomma come ogni relazione che si rispetti, vivono e trasmettono il caleidoscopio delle emozioni nelle sue varie tinte e forme.

I quadri sono abituati a interloquire con i visitatori della mostra e con ciascuno di essi realizzano un dialogo particolare, si pongono come racconti visivi da essere accolti, ospitati dalla mente di chi li contempla per poi generare in ogni rapporto un significato diverso, appunto tanti significati quanti sono gli incontri.

Adesso col fiato sospeso sono in ascolto delle nostre parole, stiamo parlando di loro, temono di poter essere trattati male, di essere criticati, non compresi, giudicati. Sanno bene che la mente umana è limitata, non possiede tutte le potenzialità immaginifiche a cui loro sono abituati. Forse solo i bambini, esperti nella fantasia e nel gioco “del far finta”, potrebbero capirli di più e saper giocare con loro.

E ora non posso fare a meno di interrompere momentaneamente il contatto con Renata e Peppino per rivolgermi a loro, i quadri, che sono in attesa impaziente, sono esigenti, richiedono un’attenzione assoluta, vogliono rivelarsi senza intermediari.

Alcuni mi richiamano con speciale vigore. Eccomi attirata dalla loro urgenza e mi predispongo ad ascoltare e a giocare con loro.

Olivia col suo uccellino in testa mi vuole raccontare la sua storia. È una storia triste e spaventosa, storia di bambina mutacica, dalla bocca cucita per paura del mondo e per timore di lasciarsi sfuggire parole pesanti, dolorose, accusatorie. Olivia è reduce da una storia di abuso e trascuratezza emotiva, con lo sguardo mi racconta della sua ferita, della sua solitudine, del non sentirsi compresa, protetta, contenuta. Le parole imprigionate dicono tanto del terrore che l’ha paralizzata. Dopo un lungo periodo di terapia dove ha potuto sperimentare vicinanza, tenerezza e continuità nella relazione, Olivia ha iniziato ad aprirsi al mondo e, in un suo passeggiare, ha incontrato un uccellino ferito, proprio come lei, l’ha raccolto e curato con la stessa tenerezza che le ha permesso di rinascere.

E Peppino nel darle vita in “Olivia e l’uccellino” l’ha trattata con tenerezza e accudimento, ha avuto una cura particolare nel maneggiare i colori per non farle male, e con sensibilità e rispetto, ha donato al suo sguardo la profondità dell’esperienza che l’ha segnata, è lo sguardo intenso di chi ha vissuto dolori traumatizzanti, sguardo reso prematuramente sapiente e diffidente, ha una luce di sfida verso il mondo, adesso ce l’ha fatta, non si sente più sola, ha dentro un’esperienza di una relazione buona e si mostra col suo uccellino sul capo come fosse un prolungamento di sé.

Ha un portamento fiero, i capelli rossi ondeggiano coraggiosi, il mento è volitivo, eppure la bocca segnala ancora un patimento, le labbra sono strette e gli angoli vanno un po’ in giù, ma le gote sono piene e rosee e in fondo allo sguardo scorgo curiosità, forse speranza, determinazione, la vita va affrontata…tanti auguri di buona vita cara Olivia.

Saluto la bimba e mi lascio attrarre da un’immagine che è la quintessenza della tenerezza, un volto di donna dolcissimo, leggermente inclinato, il collo piegato morbidamente, le labbra socchiuse, lo sguardo abbassato e una cornice di capelli con degli spunti dorati che le accarezzano il volto, la fronte, l’orecchio in un abbraccio soave. È un’armonia di forme e di colori, la tonalità calda non si differenzia tra l’immagine e lo sfondo, è soltanto la pressione del pastello che crea la forma e la fa sgorgare da un informe indefinito, dandole vita.

Renata intitola questa sua opera “Dolce attesa”. È evidente la delicatezza del tratto, come se l’immagine nascesse da una carezza leggera. Si sente l’affetto, la vicinanza, la cura della sua creatrice, e si può immaginare quale dialogo affettivo tra di loro. Rievoca la relazione intimissima di una madre con il figlio che culla in grembo, quel rapporto ineffabile che incanta e commuove. Chissà se Renata le ha segretamente anche suggerito un nome? Chissà quali emozioni sono protette dalle palpebre chiuse della dolcissima mammina e chissà quali parole sorridenti sono ospitate in quelle labbra gonfie di felicità.

Un altro piglio ha “La bella addormentata” di Peppino Fusar-Poli, dorme sì, ma con un’aria concreta, la si vede fatta di carne e ossa e trasmette da tutti i pori il piacere del dormire. Anche qui l’immagine e lo sfondo sono un’armonia di colori della stessa nuance e di ripetizione quasi ossessiva di forme. L’insieme dà un’idea del bello e una sensazione di benessere e di vitalità. È un quadro che è una festa. Il vestito e lo sfondo sono arricchiti da continui riccioli, cerchi, spiraline, quasi delle girandole che danno un senso di pieno e di movimento in una situazione che è abitualmente di staticità.

Chissà se Peppino le ha cantato una ninna nanna per farla addormentare, o se preferirebbe che aprisse gli occhi e lo guardasse? Ma forse questa danza di movimento-colore ci parla dei sogni della bella dormiente, sogni carichi di pathos, sogni d’oro naturalmente. E probabilmente tutto il tripudio di colori-forma che muove il quadro è la rappresentazione onirica di una grande vitalità, di una sensorialità prorompente, di una gioia dell’essere nel reale, del piacere di essere in vita, di aprirsi alla vita.

Altra atmosfera emotiva mi coglie nel richiamo di una donna semi velata, mi affascina il clima di apparente cupezza, ma forse si tratta di un sentimento di pacatezza, di riflessività, di incertezza. “Dimmi, ti ascolto” così Renata Storari ha intitolato la storia vissuta nel suo quadro, sembra una storia d’amore sofferta oppure così intensamente vissuta da essere sentita come dolorosa. Anche il troppo bello è difficile da metabolizzare, può addirittura fare male. Lo sguardo intenso e serio racchiude pensieri profondi, forse emozioni che spaventano, titubanze, comunque si respira uno stato di attesa.

Il viso appare sereno, nonostante lo sguardo leggermente inquieto, la bocca è morbida, le labbra socchiuse, non c’è chiusura, ma vibra una fremente aspettativa…splendida è la trasparenza del velo, che copre e svela allo stesso tempo i pensieri che formicolano nella giovane donna. È una promessa di felicità o timore di un abbandono? In ogni caso vengo accolta in questo campo emotivo che mi contagia per la sua intensità e mi induce a vivere all’unisono con la bella sconosciuta, passioni segrete.

Davvero, come suggerisce il titolo della mostra, i segni mi hanno portato a sognare, a creare storie inaudite, incredibili e vere, vere per me che le ho sognate, vere per i personaggi che con me le hanno vissute, forse in parte vere e in parte mai pensate da parte degli autori che hanno raccontato il loro sogno.

Il pensiero psicoanalitico ritiene che il sognare sia il lavoro psichico più profondo, un lavoro di trasformazione e cambiamento. Forse Renata Storari e Peppino Fusar-Poli sognando/creando quadri hanno potuto poi accorgersi di una loro trasformazione come persone, un cambiamento realizzatosi di pari passo col progredire dell’esperienza creativa e della tecnica pittorica.

La psicoanalisi ha sempre apprezzato le opere d’arte, le ha tenute molto in conto come interlocutrici molto significative a cui attingere per accedere alle questioni dell’anima.

Freud diceva che gli artisti anticipano il pensiero scientifico per la loro visionarietà tanto che li considerava i suoi precursori nella conoscenza del mondo psichico.

Addirittura Einstein scriveva che: “L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata. L’immaginazione circonda il mondo”.

Ma ancora più vicino all’artista è il pensiero dello psicoanalista inglese Donald Winnicott: “Credo che in ogni sorta di artista si possa ritrovare un dilemma intrinseco dovuto alla coesistenza di due tendenze: il bisogno urgente di comunicare e il bisogno ancora più urgente di non essere trovato” e poi continua “è una gioia nascondersi, ma è un disastro non essere trovati”. Davvero un enigma, difficile da concepire razionalmente questo bisogno contradditorio…suona paradossale. Ma allora si vuole o non si vuole essere trovati?

E veramente forse Winnicott incarna l’ambivalenza dell’artista che si “mette in mostra” perché vuole essere riconosciuto, anzi ha bisogno di essere riconosciuto per riconoscersi, ma dall’altra parte teme di essere trovato, scoperto nella sua privatezza, nelle sue parti oscure, svelato negli strati più profondi di sé, quasi violato e col timore di essere frainteso e mal giudicato.

D’altra parte la sua è una comunicazione così profonda da essere inimmaginabile, una comunicazione silenziosa, al di là delle parole, che ricorda “la musica delle sfere” come aveva intuito Pitagora, quella musica prodotta dal movimento dei corpi celesti, musica di perfetta armonia, ma impercettibile all’uomo.

Un po’ come la comunicazione impercettibile ai sensi, ma intuibile dall’immaginazione che avviene nell’incontro intimo tra i quadri e i loro fruitori, generando per ciascun accoppiamento un significato diverso, unico, assolutamente personale ed irripetibile. Una musica inudibile quindi, ma che esiste, prodotta dalle onde sonore di quell’incontro, come succede nell’innamoramento, vibrazioni segrete, musica sommersa, sonorità opacizzata germinata da quella “conjuctio mystica” (Jung) personalissima, irripetibile, musica che non si ode, eppure c’è e fa sentire vivi.