Nel 1915, quando l'Italia dichiarò guerra all'impero austro-ungarico, il confine tra i due stati era lungo circa 600 chilometri, e con il suo andamento ad esse distesa seguiva più o meno gli attuali confini tra le regioni Veneto e Trentino, tagliando circa a metà l'attuale Friuli. Come altitudine andava da gli oltre 3500 metri della zona dell'Ortles-Cevedale per scendere fino a quota zero sul livello del mare nei pressi di Monfalcone.
A parte le storiche e leggendarie attraversate delle Alpi da parte delle truppe di Annibale e molti anni più tardi di quelle di Napoleone, era la prima volta che degli eserciti si affrontavano a quote così elevate. Gran parte delle battaglie precedenti, in particolare quelle risorgimentali si erano svolte in pianura, al massimo in zone collinari, dove i generali manovravano le loro truppe come pezzi su una scacchiera. Il fatto però di dover far combattere e soprattutto permettere a migliaia di uomini di sopravvivere a quelle quote e alle temperature invernali che nei due inverni, quello del 1915-1916 e quello tra il 1916 e il 1917, furono le più rigide di tutto il XX secolo toccando anche i - 42°, comportò tutta una serie di soluzioni logistiche mai prima affrontate da nessun Stato Maggiore.
Quella che fu poi conosciuta come Guerra Bianca, fu quella che i due eserciti contrapposti combatterono nella zona dell'Adamello e dell'Ortles-Cevedale ai confini tra l'impero e la Lombardia, più semplicemente come Guerra in Montagna quella che si combatté sulle Dolomiti, in Carnia e sull'altopiano dei Sette Comuni. Guerra Bianca perché in quelle zone i ghiacciai sono perenni e quindi il bianco era il colore che faceva da sfondo agli eventi bellici che lì vi si svolsero. E proprio per evitare che il grigioverde da una parte e il fledgrau dall'altra fossero dei perfetti bersagli scuri su sfondo bianco, come in effetti si verificò durante i primi attacchi del '15, i soldati furono dotati di camicioni e tute bianche, dando il via al concetto di mimetismo militare. Per spostarsi più rapidamente lungo i pendi innevati nacquero le compagnie skiatori, dotate di sci in legno di frassino e bastoncini in canna di bambù, e per poter camminare sul ghiaccio i soldati furono dotati di ramponi a più punte, antesignani di quelle che si usano ancora oggi.
Dai primi accampamenti in tenda, gli italiani usavano tende modello Bucciantini, dal nome del loro ideatore, visto che la guerra sembrava dovesse continuare più a lungo rispetto le prospettive iniziali, si dovette passare alla costruzione di veri e propri villaggi con edifici in muratura e baracche in legno, spesso abbarbicate alla roccia in posizioni impossibili e raggiungibili solamente con scale di corda o, nel migliore dei casi, di legno. E così lunghe corvè di uomini salirono per centinaia di metri di dislivello, lungo sentieri spesso scavati appositamente nella roccia, portando sulle spalle travi e assi di legno, cartone catramato da usare come isolante per le baracche, armi e generi di conforto per i compagni in prima linea.
Per "aiutare" queste corvè si cominciarono a costruire chilometri di teleferiche, che servivano anche per trasportare a valle i feriti e i caduti. Si calcola che nell’Ottobre del 1917 complessivamente il Regio Esercito Italiano avesse operativi 564 impianti teleferici tali da coprire una distanza totale pari a 614315 metri. Si scavarono ricoveri in caverna e gallerie sia difensive che offensive, usando pale e picconi ma anche perforatrici elettriche ed esplosivo. Di queste opere numerose sono ancora le tracce presenti sui luoghi dove si è combattuto. Solo chi faceva turni di sentinella, che a volte, viste le temperature, potevano essere anche solo di 15 minuti, veniva dotato di cappotti di pelliccia e sovrascarpe in pelle e suola di legno chiodata o come un modello austriaco in paglia intrecciata e di paglia imbottite, per tutti gli altri, cappotti di panno e mantelline dovevano bastare a ripararli dal freddo e dalla neve. In queste condizioni oltre che con il nemico gli uomini dovettero combattere anche e soprattutto contro la natura. Il pericolo delle valanghe era sempre presente.
Moltissimi furono i morti sepolti dalla neve i cui corpi, se non recuperati subito, riaffioravano solo in primavera con il primo disgelo. La giornata più tragica per questo tipo di sciagura fu certamente la notte tra il 12 e il 13 Aprile 1916 quando in tutto il fronte montano i morti per valanga furono circa 10.000! Ma molti altri furono quelli che morirono per cause legate all'ambiente, per il freddo, per la fame, per le malattie, tanto che si è calcolato che solo un terzo dei soldati su questo fronte morì in combattimento. Teniamo anche presente, che nell'esercito italiano molti dei soldati che combatterono su questo fronte provenivano dalle regioni del sud d'Italia e dovettero subito confrontarsi con un ambiente a loro completamente sconosciuto.
Per ovvi motivi ambientali gli scontri che si svolsero in questo settore del fronte non possono sicuramente essere paragonabili a quelli più sanguinosi che si svolsero sul Carso, dove grandi masse di uomini dovevano uscire dalle trincee e attraversare la terra di nessuno sotto il fuoco delle mitragliatrici e delle artiglierie, cercando di conquistare la trincea nemica. Qui la maggior parte furono scontri tra pattuglie dove la conquista di una cima o di una postazione nemica avevano più il carattere di imprese alpinistiche che belliche, anche perché molti degli uomini che combatterono in montagna nelle opposte linee, erano montanari e alpinisti e molte furono le guide alpine che vestirono una divisa diversa durante il conflitto.
E proprio per l'ambiente e il modo in cui qui si combatté molti protagonisti di queste imprese entrarono nella leggenda. Uno su tutti, Sepp Innerkofler, guida alpina di Sesto e gestore del Dreizinnenhütte (rifugio Tre Cime) l’attuale rifugio Locatelli, che cinquantenne si arruolò volontario come guida e la cui morte si ammantò di leggenda, perché mai del tutto chiarita, mentre con la sua "pattuglia volante" arrampicava per attaccare gli italiani che presidiavano dal 29 maggio 1915 la cima del monte Paterno: Per Sepp il Paterno e l'altopiano delle Tre Cime rappresentavano i punti di forza per la linea difensiva sopra la valle di Landro. Riuscì perciò a convincere il comando di zona a farsi assegnare l'occupazione (…) della cima del Paterno.
Della morte del Sepp esistono varie versioni le più conosciute sono quelle che riporto qui di seguito. Nella prima Sepp si erge dietro un sasso, lancia tre o quattro bombe a mano, delle quali forse solo una esplode, e poi viene visto dai suoi compagni *colpito alla fronte precipitare con un urlo giù per la parete e cadere sulla ghiaia (Viktor Schemfil).
La seconda, di parte italiana, cita: D'improvviso appare, dritta sul muretto della vedetta della cima, la figura di un soldato alpino - Pietro De Luca del battaglione Val Piave - campeggiante nel tersissimo cielo, alte le mani armate di un sasso, rigata la fronte di rosso della prima bomba. «Ah! No te vol andar via?». Prende giusto la mira, scaglia con le due mani il sasso! Il Sepp alza le braccia al cielo, cade riverso, piomba, si incastra nel camino Oppel, morto (Antonio Berti, 1915-1917. Guerra in Ampezzo e Cadore).
La terza versione e forse quella più attendibile, che serpeggia fra i compagni di Sepp ed i valligiani, è invece che siano stati gli stessi austriaci ad ucciderlo per errore proprio nel momento in cui si era alzato per snidare la vedetta italiana e che ben si evidenzia in quanto scritto nel 1937 e poi nel 1975 dal figlio Sepp jr. … mio padre si mise a maneggiare il fucile e nello stesso tempo la mitragliatrice sulla Torre di Toblin (cioè austriaca) iniziò a sparare. Venne subito messa a tacere, ma era già troppo tardi, perché all'istante vidi mio padre scivolare giù per la parete e giacere presso il camino Oppel. Alla esumazione sul Paterno (agosto 1918) non ero presente. Alla seconda esumazione nel camposanto di Sesto ero presente e vidi come la testa fosse perforata diagonalmente dalla fronte verso l'occipite. M'immagino che mio padre si accorse che gli sparavano addosso da dietro e che si voltò. Infatti ho esattamente accertato che l'uscita della pallottola avvenne da dietro. (Viktor Schemfil)
Il 9 luglio l'arciduca Eugenio d'Asburgo conferì a Sepp la medaglia d'oro al valor militare. Gli alpini italiani recuperarono la salma nonostante il tiro nemico per poterla seppellire, come sommo gesto di stima, sulla cima del Paterno per la quale e sulla quale egli era morto. Salma che, dopo il ritiro degli italiani dalla zona delle Tre Cime in conseguenza della ritirata di Caporetto, fu recuperata (Agosto '18) e quindi traslate da parte della famiglia nel cimitero di Sesto.
Altre e non meno affascinanti, furono le figure di soldati di entrambi gli eserciti che combatterono sul fronte alpino, e che per le loro azioni entrarono a pieno diritto nelle leggende di cui è piena la storia della montagna e dell’alpinismo…ma di queste parleremo magari un’altra volta. Per concludere questo articolo, invece, posso solo invitare chi percorrerà quei sentieri e quelle gallerie, chi visiterà quelle postazioni, o si arrampicherà per quelle rocce, e si imbatterà in qualche pezzo di scarpone, qualche gavetta o un qualsiasi oggetto, dei tanti che si trovano ancora tra i sassi, appartenuto a quegli uomini, a soffermarsi in silenzio ad ascoltare la voce del vento che racconta le storie di coloro i quali chi per dovere, chi per difendere il proprio territorio, fecero di una guerra assurda ... forse la più meravigliosa fra le campagne di guerra ... dev'essere stato come prendere d'assalto il cielo, come ebbe a scrivere lo scrittore britannico Herbert George Wells.