Ucci ucci sento odor di cristianucci
O ce n’è o ce n’è stati
O ce n’è di rimpiattati
(Refrain in molte fiabe con gli orchi)
Un numero notevole di fiabe di ogni regione italiana e di tutta Europa presenta quali protagonisti o comparse personaggi celebri ma non ancora a fondo studiati: gli orchi, sia nella loro versione maschile che femminile.
Compaiono nelle fiabe anche comportamenti tipici degli orchi ma attribuiti nominalmente a streghe, stregoni, fate cattive, “regine madri” spietate. Orchi espliciti e impliciti. Questo dato culturale è tipico di una lunga stratificazione storica. Siccome lo studio dell’etimo non risolve (in quanto orcus/ogre spazia dal greco al latino fino all’antico inglese) la domanda semplice che dobbiamo porci è questa: quali sono i connotati degli Orchi fiabeschi?
Se confrontiamo centinaia di fiabe il risultato è questo: gli orchi sono sempre gli stessi, assumono i medesimi comportamenti che possiamo riassumere: 1) hanno ottimo fiuto 2) non sono cristiani e hanno disprezzo e ostilità verso i cristiani 3) mangiano i cristiani, sia crudi che cotti, in particolare i bambini. Estremamente importante è anche il contesto ambientale tipico degli orchi seppur le fiabe siano sempre abbastanza indeterminate nel loro spaziotempo. Il tempo e luogo della fiaba è sempre lontano, per esigenze narrative e per la stessa natura della fiaba.
Possiamo dire che gli orchi abitano un “lontano” dentro il “lontano della fiaba”. L’habitat che rivela l’orco è connotato da pochi tratti: boschi, terre selvagge, luoghi isolati, zone attraversate dai loro appetiti immensi e da una certa passione per la caccia. Non a caso nella Bella addormentata il popolo del contado crede che nell’isolato bosco di rovi che circonda il castello ci vivesse un orco. L’orco ama la selvaggina, non distinguendo fra quella animale e quella umana, trattata quale selvaggina prediletta per la sua prelibatezza. Un habitat quindi normale, anche se più selvatico del solito.
Questi tratti confermano l’antichità dell’origine del personaggio: l’orco sta poco in casa, esce presto e torna alla sera stanco e con appetiti immensi, tanto da mangiarsi una pecora intera. Se l’orco entra in tutte fiabe e compare descritto sempre nel medesimo modo ed è un tipo di umanità non possiamo, proprio per essere razionali, non chiederci: e se fossero esistiti? Gli orchi sono come noi, non sono mostri o demoni, ma persone umane. Questo li rende ancora più inquietanti, proprio perché tengono un piede nei mondi fiabeschi e uno nella storia umana. Certo, alcune fiabe indulgono ad aspetti più folcloristici, come Le tre fate di G. Basile dove l’orco appare come un “uomo-cinghiale”, enfatizzando la mostruosità etica degli orchi nel trasporla in una visualizzazione caricaturale, ma a un'analisi più attenta notiamo come nella maggior parte delle fiabe l’orco si riconosce solo quando emergono dallo svolgersi della vicenda i tratti che abbiamo ricordato, mentre i protagonisti della fiaba non si accorgono mai da soli di trovarsi a che fare con un orco.
Di solito è la moglie dell’orco, che non è orchessa come in Pollicino e nell’Orco con le penne, che avverte il protagonista per aiutarlo oppure dell’“orchità” se ne accorge il servo, il cuoco o il cacciatore o la guardia come nei casi delle orche “regine madri” che cercano in ogni modo di mangiarsi gli odiati nipotini. Gli orchi o le orchesse hanno di solito la nostra stessa apparenza umana. Gli orchi sono tali per comportamento, quale categoria socio-etica e non per differenza ontologica, ci insegnano le fiabe. In altre fiabe gli orchi appaiono in coppia, moglie e marito, come nella fiaba toscana di Pochettino.
Rari sono i casi in cui l’orco viene descritto quale figura anomala in senso visivo (pelosità, coda, grandezza, deformità, ecc.) e sono casi in gran parte facilmente spiegabili con la confusione e sovrapposizione avvenuta nei secoli tra la figura dell’orco e altre distinti personaggi mitici come l’uomo selvatico, tradizione in realtà di origine assai differente, o come il gigante, se ricordiamo la fiaba del Fagiolo magico, o come figure magico-mitiche alla Proteo, se ricordiamo l’orco proteiforme del Gatto con gli stivali. Nella fiaba bolognese del Gobbo Tabagnino l’orco viene chiamato “uomo selvatico”, ma è un orco imbuonito, cannibale ma ormai svogliatamente, e certamente descritto come ingenuo, stupido, come appartenente a un’etnia più primitiva, come pure imborghesito appare l’orco nell’omonimo racconto nel Cunto de li cunti.
Altra tipica contaminazione, questa volta con il mito greco, la troviamo nel tema, spesso orchico, dell’imbandire le carni umane a mensa, quale forma massima di vendetta contro un avversario. Dopotutto il ritualizzare la carne umana compare più volte nel mito greco: nei titani che divorano Dioniso Zagreo bambino, primi orchi europei, nel sacrificio umano di Dolone imbastito da Odisseo (Canto X dell’Iliade) e nello smembramento rituale che Menelao compie a Ilio su Deifobo.
Analogo fenomeno linguistico di sopravvivenza/contaminazione accade nella parallela casistica, anch’essa ampia, dell’“orco implicito”, fatto che dimostra il tardo confluire dell’antica figura dell’orco nella più generale, fluida, “rassicurante” categoria della strega o fata cattiva. Tutto ciò porta a poter formulare una ragionevole ipotesi: l’origine del racconto degli orchi da sopravvivenze tribali indigene. Possiamo anche azzardare una prima localizzazione, per quanto ampia e imprecisa: piccoli nuclei autoctoni nel nord europa e nell’Europa dell’est fra il 600 e il 1000 d.C. circa. Gli orchi potrebbero essere reali gruppetti tribali che resistettero alla civilizzazione in quelle regioni europee che più tardi furono cristianizzate: paesi baltici, Scandinavia, foreste russo-ucraine.
Una conferma ex post potrebbe trovarsi nel monumento all’orco divoratore di bambini, il Kindlifresserbrunnen, che campeggia a Berna, in Kornhausplatz. Forse non è un caso: la Svizzera è rimasta anch’essa per secoli isolata (e romanizzata solo a macchia di leopardo), tanto che vi perdurarono culti mitraici ancora in epoca teodosiana, anche se questo bizzarro monumento può essere letto in modo alternativo quale cinquecentesco strumento di accusa antisemita, nel solco di una possibile operazione di “semitizzazione degli orchi” tramite il racconto dell’omicidio rituale di bambini o ragazzi cristiani (Ariel Toaff, Pasque di sangue).
Questi relitti di etnie avrebbero potuto resistere in modo camaleontico rispetto ai grandi spostamenti e alla stabilizzazione delle popolazioni di origine asiatica: sassoni, goti, unni, avari, bulgari, longobardi. Gli orchi infatti appaiono “più barbari” dei “barbari” che invasero l’Impero romano, i quali si lasciarono abbastanza facilmente cristianizzare e romanizzare, avendo già una loro forma di civiltà, anche se nomade. I barbari che diedero sostanza al Medioevo avevano codici etici e d’onore, una cultura guerresca, forme sociali, per quanto semplici, e spesso sapevano già lavorare i metalli preziosi. Conferma sociologica di ciò si ha nelle “regine madri” che cercano di annientare i nipotini non orchi cucinandoli per il loro piacere. In questo caso potrebbe trattarsi del ricordo della volontà di preservarsi una stirpe orchica contro il pericolo estinzione per il meticciato (= cristianizzazione) da parte degli ultimi esponenti di queste etnie indigene. Gli orchi quale quale setta esoterica elitaria, forse di origine matriarcale. Ne accenna persino il film Il tredicesimo guerriero.
La metamorfosi narrativa del comportamento orchico è indice di un processo socio-storico credibile che spiegherebbe la genesi di tale immaginario. La fiaba assorbe e perpetua nel tempo. Basti pensare alle tracce derivanti dal mito greco e dalle ritualità latine: nella fiaba piemontese La barba del conte viene evocato un racconto più antico: quello della Masca Micillina, una “strega” che dimostra comportamenti tipici di Medusa, delle Baccanti, e della Medea degli Argonauti di Apollonio Rodio: sguardo rituale che tramortisce e il furto delle mandrie commisto alla magrezza fatturata delle bestie.
Gli stessi gesti li troviamo anche nelle maschere etrusche toscane delle Gorgoni: lingua in fuori tipo dea Kalì e occhi strabuzzanti. E non a caso nel racconto il protagonista, Masino, accenna ai cannibali africani. Lapsus e transfert culturale? Riguardo a una dinamica facciale che magicamente genera un trauma le performance di Miley Cirus avrebbero causato scompensi cardiaci negli uomini antichi!
Tornando ai comportamenti orchici possiamo ricordare la favola monferrina I dodici buoi dove la strega che appare quale principessa tenta di mangiarsi un agnellino che in realtà è uno dei fratelli della principessa, oppure Re Crin dove sono questa volta Vento, Fulmine e Tuono che potrebbero mangiarsi il protagonista e recitano l’"ucci ucci", mentre nella versione calabrese della Bella Addormentata la principessa ha due figli da un giovane re innamorato e la spietata regina madre ordina di cucinare e servire a mensa a suo figlio i corpi dei due suoi figli, che si salveranno per la consueta compassionevole sostituzione che ritroviamo anche in Biancaneve.
Non si comprende mai perché la regina madre odi così tanto i suoi imprevisti nipoti. Perché non sono di stirpe orchica? Oppure vuole dare da mangiare i nipoti al figlio per abituarlo al cannibalismo orchico? Si tratta di un’iniziazione? Sembrerebbe così in quanto il giovane re, all’improvviso misteriosamente ammalato, non può andare più a trovare di nascosto la sua amata e i suoi figli e allora continua a ripetere i loro nomi ma in un modo strano, quasi rituale e allusivo: Sole, Luna e Carola vi avessi alla mia tavola. La citazione della tavola e il tentativo di infanticidio/cannibalismo indotto sembrano dialogare fra di loro quali echi di riti ancestrali, magari sacrificali o ritenuti taumaturgici. Analogo caso di “orchismo postumo, mascherato” lo troviamo nella favola fiorentina di Prezzemolina, variante di Raperonzolo, dove le streghe fanno di tutto per cercare di mangiarsi la ragazza.
L’orco in conclusione non appare un guerriero, né conosce il lavoro, a differenza dei popoli barbari del primo Medioevo, ma si lascia denotare solo quale cacciatore stanziale, cioè la forma sociale più primitiva. Lo stesso fiuto acuto, per la carne viva, sembra attributo tipico di cacciatori quasi preistorici, simili alle loro prede. Anche nei casi in cui l’orco appare peloso, come nella favola abruzzese La finta nonna, che presenta alcuni aspetti simili a Cappuccetto rosso, e in quella pugliese Pulcino, simile a Pollicino, questo dato potrebbe rinviare allo status tribale e primitivo degli orchi quale categoria etnico-culturale.
La mostruosità dell’orco, oltre al cannibalismo anticristiano, deriva anche dal suo “non detto”, cioè dal non poter essere qualificato né descritto né normalizzato altrimenti. Orco. E basta.