Nel bosco è il titolo di un allarmante capitolo del libro L'odore della carta del giornalista e scrittore inglese Ian Sansom. Chi continua ad amare il libro fatto di pagine di carta e a leggere godendo del contatto fisico delle mani con il corpo del volume, ha di che farsi venire complessi di colpa a scorrere questa denuncia ecologica lanciata da Sansom, sinteticamente rappresentata da questa frase: “Le più grandi foreste del mondo non si trovano in Canada o in Amazzonia, ma nelle librerie, sugli scaffali e nei magazzini di Amazon sparsi per il globo”.
Le multinazionali della carta, insomma, sono colpevoli di una deforestazione selvaggia del globo che denota un rispetto odierno dell'uomo per gli alberi, se non inesistente, almeno assai inferiore a quello dell'antichità, sia del mondo romano che del mondo germanico, quando dei boschi non solo veniva tutelata salute e salvaguardia, ma era anche celebrata la assoluta sacralità. Leggendo l'appello di Ian Sansom non possono non tornare immediatamente alla mente le suggestioni e le emozioni che hanno suscitato le immagini delle grandi foreste e dei boschi, presenti nelle pagine che più abbiamo amato, a cominciare da quella che forse più ci impressionò al tempo degli scuola, quella della tragica e solenne conclusione dell'Edipo a Colono di Sofocle.
Edipo, ormai vecchio e cieco, arriva nel sobborgo di Colono accompagnato dalla figlia, accolto tanto benevolmente dai pochi fedeli amici, quanto assai ostilmente dalla maggior parte degli abitanti di Colono, che non hanno dimenticato le sue terribili colpe. Ma gli dei hanno ormai deciso la sua sorte e un fulmine a ciel sereno ne dà l'annuncio. Allora Edipo s’incammina da solo nella foresta sacra delle Eumenidi, fittissima di alberi, chiusa all'“ardore del sole e al furore dei venti”, popolata di uccelli che la riempiono di assordanti sonorità, per andare finalmente incontro al suo destino; dalla foresta non uscirà mai più. Non si saprà mai se Edipo si è dissolto tra gli alberi, diventando creatura silvana, o sia riuscito a valicare i confini del bosco, al di là del quale si immaginava che fosse il cosmo ultraterreno.
L'intrico della foresta difficile da penetrare e da attraversare, è stato spesso avvertito dai poeti dell'antichità come cosmo dai confini imprecisi e indefinibili, oltre i quali la conoscenza dell'uomo non riesce a giungere: non di rado spazio sacro che divide il mondo dell'uomo da quello ultramondano. La grande Selva Ericina, regione montuosa e selvosa della Germania, tra il Württenberg e l'alta Baviera, a nord del Danubio comprende l'area che oggi è denominata Foresta Nera. Pur trattandosi di luogo reale, gli antichi non avevano una precisa idea della sua estensione e dei suoi confini e diventava, così, nell'immaginazione collettiva, posto leggendario, selvaggio e terribile, popolato di genti e di animali inquietanti. Lo stesso Cesare in un passo del De Bello Gallico, in una delle sue straordinarie descrizioni dei luoghi teatro della guerra, scrive: “non v'è abitante della Germania occidentale che possa dire di aver raggiunto il limite di questa selva, pur avendo marciato per sessanta giorni, o sappia da qual luogo ha principio”.
La foresta allora affascina i poeti con il mistero del mondo che può trovarsi oltre il suo estremo limite. Avvincente la descrizione virgiliana della foresta che Enea e la Sibilla Cumana devono attraversare per raggiungere l'Ade, dopo aver trovato il miracoloso ramo d'oro di un albero sacro a Giunone, che permetterà loro l'accesso agli inferi: anche la traduzione italiana di Annibal Caro, non sempre aderentissima al testo latino dell'Eneide, rende con efficacia le suggestioni di questo luogo. I due attraversano così una “selva opaca, tra valli oscure e dense ombre” che separa la terra dall'aldilà. Ritroveremo la stupenda immagine della “selva opaca” nel Guglielmo Tell di Rossini, nella famosissima, struggente aria di Mathilde dedicata alla “selva opaca” la cui vista suggerisce piacere e indurrà il suo cuore ad aprirsi alla calma, pur sui monti “dove il turbine impera”. D'oro, dunque, il ramo che Enea deve cogliere per offrirlo a Caronte e ottenere d'essere traghettato oltre il fiume Stige. Dall'episodio trasse idea James Fraezer per dar titolo al suo saggio, Il ramo d'oro, pubblicato nel 1890, dedicato alle pratiche magiche e superstiziose: un intero, ampio, capitolo fu dedicato proprio alla venerazione degli alberi.
Agli alberi, alla simbologia che a essi si ricollega, alla loro longeva bellezza, alla loro presenza nell'immaginario umano, alla loro capacità di poter comunicare con codici naturali senza parole agli uomini, è dedicata tantissima parte dell'opera poetica di tutti i tempi: dalle forme più liriche e struggenti a quelle più sensuali ed emotive. Pensiamo agli alberi che parlavano al bambino di Jacques Prévert, ma anche alla Pioggia nel pineto di D'Annunzio, con gli amanti che, sorpresi dalla pioggia in una pineta, corrono avvertendo che i loro corpi stanno diventando “silvani”, quasi con una temporanea metamorfosi da favola.
E sono sempre presenti, gli alberi, nei momenti di maggiore intensità emotiva dell'uomo: Agostino si converte sotto un albero di fico; sotto un frondoso bo – specie di fico bengalese - il Buddha riceve l'illuminazione; all'ombra di un sicomoro Wordsworth compone la poesia L’abbazia di Tintern. O diventano spesso simbolo della libertà, vessillo di rivoluzioni epocali: quella francese, quella americana e quella napoletana del 1799, brevissima come un sogno.
Gli alberi sono, insomma, sempre con noi e rivelano la loro forza straordinaria anche se prigionieri negli spazi angusti di un cortile condominiale quando, pur chiusi tra la tristezza del cemento delle nostre attuali case, esplodono di vita a primavera con quella generosità che noi uomini non sempre meritiamo. Perciò, se veniamo fuori dal mondo delle favole e della poesia, dal fiabesco ambiente della narrativa, nella quale i visionari e i sognatori colloquiano con la natura vegetale, potremmo anche, senza essere poeti, scoprire che gli alberi tentano di parlarci e che alla fine è possibile dialogare con le piante; basta abbandonare per una volta i velocissimi strumenti della tecnologia contemporanea dei quali abusiamo. Più natura e meno tablet, smartphone e rete? Perché non provarci?