Anni 55, di cui quattro spesi senza un documento valido per l’espatrio, un arresto con l’accusa di evasione fiscale e 81 giorni di isolamento forzato in prigione. Sembrerebbe il ritratto di un criminale, ma questa è un’altra storia. In realtà questo è il curriculum di un uomo con un’unica colpa (per così dire): quella di aver condotto per più di vent’anni un continuo e accanito attivismo politico a danno dell’intoccabile immagine del governo cinese. Una lotta a favore del libero pensiero, condotta attraverso il media più potente e cross-culturale di tutti, che parla un solo unico linguaggio universale: l’arte.
Definito da molti come il più umano degli artisti concettuali, Ai Weiwei è anche il più libero (concettualmente parlando) tra gli artisti contemporanei. La non libertà di espressione in Cina, è qualcosa che noi occidentali possiamo solo vagamente concepire, ma nonostante una forte difficoltà a raccontare la verità, per Ai Weiwei la censura non ha mai costituito una barriera alla sua missione di denuncia sociale, espressa a colpi di dissidenza e opere d’arte controverse.
Una scelta di attivismo e di lotta per i diritti umani lunga più di vent’anni, sin da quando nel 1992, dopo gli anni di studi di design a New York, Ai decide di fare ritorno in Cina per stare vicino al padre ammalato, il poeta Ai Qing. Anche quest’ultimo anni prima fu vittima di un arresto, per aver difeso l’amico e scrittore Ding Ling dall’accusa di essere un uomo di destra, durante la grande repressione del 1957-’59. Gli anni seguenti al suo rientro in Cina vedono Weiwei nell’ordine protagonista di una comunità di artisti d'avanguardia, cofondatore e direttore artistico dell'Archivio delle arti cinesi (CAAW) e di numerosi progetti di architettura assieme il gruppo di architetti svizzeri Herzog & de Meuron con il quale partecipa anche alla progettazione del padiglione della Serpentine Gallery di Londra.
Nel 2003 fonda il suo studio, il «FAKE Design». È proprio qui, nel suo laboratorio, che inizia a prendere forma un’officina fatta di idee, passione per la materia e l’artigianato. Nel suo laboratorio, Ai impiega fabbri, carpentieri, falegnami ma li priva dei loro strumenti di lavoro. I chiodi e le viti spariscono, la colla sparisce e i materiali (tutti di riciclo) vengono montati solo con scappello, martello e mortasa, un’antica tecnica di montaggio.
Ciò che resta del suo studio, demolito nel 2011 dalle autorità cinesi, è stato esposto sotto forma di una scultura fatta di pezzi di muro e legno intagliato alla Royal Academy di Londra che ha ospitato, assieme a diversi suoi lavori, una personale dell’artista conclusasi lo scorso dicembre 2015. Una mostra molto attesa a Londra, nonché la prima alla quale Weiwei ha potuto assistere di persona dopo la riconsegna del suo passaporto (sequestrato per più di 4 anni) e il tanto atteso visto inglese, un nulla osta prezioso quasi come gli equilibri diplomatici tra Cina e Inghilterra.
Ogni opera esposta ricorda momenti legati alla sua storia personale e a quella cinese. I racconti tra le sale si intrecciano e si fondono come i suoi materiali, tra concettualismi duchampiani, (tanto cari all’artista), utilizzo di media moderni come video e documentari, ideologia politica, iconoclastia e memoria. È in questo contesto che antichi vasi di terracotta della dinastia Han vengono ricoperti con colori pop e vivaci, o firmati con il logo Coca-Cola, a simbolo del consumismo degli USA. Il legno recuperato dagli antichi templi distrutti diventa una scultura in segno di onore e rispetto delle tradizioni artigianali cinesi. E ancora degli sgabelli di legno appartenenti alla dinastia Qing sono tra di loro incastrati e irradiati a formare un’unica scultura che sfida la gravità e che ricorda nuovamente Duchamp, anche se umanizzato all’estremo. Una pila di tremila granchi di porcellana accumulati in un angolo sono invece il simbolo dell’He Xie, parola che in cinese significa sia granchio di fiume ma anche ‘armonia', parola di cui la propaganda di regime ha abusato e che nel linguaggio di internet indica ora anche ‘censura'.
Tra le opere più toccanti, ospitata nelle magnifiche sale della Royal Accademy, c’è anche Straight: novanta tonnellate di ferro contorto e pazientemente raddrizzato a mano proveniente dai resti delle scuole distrutte dal terremoto di Sichuan nel 2008, dove persero la vita più di cinquemila bambini. I loro nomi: tutti scritti a mano sulle pareti della sala. Un’opera di denuncia, dove il materiale e il suo utilizzo è di nuovo protagonista, ma questa volta in chiave di colpevole e complice di un sacrificio umano. Infatti i materiali impiegati per la realizzazione delle scuole erano scadenti e non resistettero all’impeto della scossa.
Nella mostra anche una meticolosa ricostruzione delle celle che raccontano con spirito voyerista e l’utilizzo di mini sculture di cera i giorni della sua prigionia, durante i quali Ai veniva sorvegliato a vista, anche durante il sonno, e recluso in un luogo segreto dove nessuno, neanche sua moglie, poteva fare visita. Un momento triste e di riflessione anticipa la chiusura della mostra con un’ultima opera, la più spettacolare: The Bicycle Chandelier. In una magnifica sala a pianta ottagonale, si dirama dal soffitto un enorme, fascinoso candelabro fatto interamente di biciclette, un popolare mezzo di spostamento in Cina, presente nelle strade cinesi e spesso usato come mezzo anche nelle sue opere.
Un mezzo che racconta il passato e il presente di un paese con una lunga storia come la Cina, uniti al racconto di un’altra storia, quella umana e personale dell’artista, fatta di rispetto e venerazione per le tradizioni ma anche di ribellione e provocazione nei confronti di un regime ossessionato dalla censura ad ogni costo, come è tutt’ora oggi quello cinese.