[…] Con ciò sia cosa che chi non sale non teme di cadere, e chi cade nel piano (il che rare volte adiviene) con picciolo agiuto de la propria mano senza danno si rileva. Onde per cosa vera et indubitata tener ti puoi, che chi più di nascosto e più lontano da la moltitudine vive, miglior vive. E colui tra' mortali si può con più verità chiamar beato, che senza invidia de le altrui grandezze con modesto animo de la sua fortuna si contenta.
L'Arcadia, una regione al centro del Peloponneso confinante con l'Argolide, diviene luogo geografico, letterario e utopico del protagonista del nostro viaggio, ossia Jacopo Sannazaro, sotto l'identità e lo pseudonimo di Azio Sincero (l'uomo dal ''cuore di cristallo''). Ma esiste l'Arcadia?
Sannazaro (Napoli 1455 circa-Napoli 1530) scrive l'Arcadia nella stanza di casa sua, una casa nel centro storico di Napoli, in un vicoletto presso piazza della Sellaria. Da quella stanza, potremmo dire, comincia il suo viaggio immaginario. Figlio di Cola Sannazaro e di Masella Santomango, vive con profondo dolore il lutto dei suoi genitori, appesantito nell'anima, come vedremo durante tutto il suo viaggio.
Pubblicata nel 1504 a Napoli, l'Arcadia si presenta come un prosimetro, data l'alternanza di parti in prosa e di egloghe che fanno da raccordo. Senza dubbio considerata l'opera che ha fondato la letteratura italiana, i modelli a cui guarda Sannazaro sono Boccacio per la prosa e Petrarca per la poesia ma, come ogni innovatore che si rispetti, non lascia mai che la sua scrittura diventi semplice emulazione dei più grandi. Oltre a Petrarca e Boccaccio, un importante riferimento è la tradizione bucolica, con Teocrito da una parte e Virgilio dall'altra. Ovidio, invece, è il modello per ciò che riguarda l'elemento magico (basti pensare ai riti in onore della dea Pale).
Da Virgilio eredita formule e personaggi ma Sannazaro trasforma sostanzialmente l'esito delle trame, fino a rendere terribile il concetto di locus amaenus, inteso, come sappiamo, ben diversamente da Virgilio. Tutto ciò che era poetico e idilliaco ora diventa presagio di morte e angoscia, quasi a rispecchiare i tormenti interiori dei pastori con le loro storie. Lo scrittore interviene in questo libro pastorale attraverso una serie di doppi, ora è Ergasto, ora è Selvaggio, ma è all'inizio della settima prosa che prende parola esordendo con ''finalmente io''. Quindi, solo ora il lettore sa che il viaggio intrapreso sarà quello di Sannazaro.
Nel cuore di ogni pastore regna la pietas, intesa come partecipazione emotiva al dramma altrui, sentimento necessario alla nascita di una società fondata su nuovi valori. Furor, amore, malattia e magia sono costantemente presenti nella tessitura dell'opera. Ciò che non sfugge mai durante la lettura è la lotta tra umanità e natura, celebrata quest'ultima in tutta la sua solennità come nelle parole del vecchio Opico che rievoca il mito dell'età dell'oro e non abbandona le sue speranze per il domani.
In realtà, l'autore non fa altro che raccontare la crisi che la Napoli Aragonese stava vivendo negli anni del Rinascimento, quelli della Congiura dei Baroni e i pastori non sono che degli alter ego di personaggi già esistenti. Emblematico in questo senso il sadico episodio della cattura e dell'uccisione degli uccelli, ritratto della dimensione violenta in cui si trovava la civiltà italiana in quel periodo. Dunque, è un'utopia sperare di cambiare le cose?
Nell'ultima prosa Sannazaro riprende il mito della ninfa Aretusa, trasformata da Diana in corso d'acqua per fuggire dall'inseguimento di Alfeo. Grazie ad Aretusa l'autore potrà proseguire il suo viaggio attraverso le cavità della terra, lì dove sgorgano tutti i più grandi fiumi del mondo.
Sannazaro infine giunge a Napoli, in un viaggio confuso ed emotivamente faticoso, pieno di eventi tragici e allusioni ambigue: ha appreso della morte della fanciulla amata o forse della madre, probabilmente la sibilla Massilia o, ancora, potrebbe trattarsi addirittura della moglie del grande umanista Pontano. Ma forse è solo Napoli che è morta con il suo paesaggio apocalittico e degradato, ben lontano dallo splendore di una volta. Nemmeno Jacopo sembra essere più lo stesso, devastato in volto dalle taciute sofferenze d'amore, al punto che non viene riconosciuto.
L'Arcadia si chiude con un congedo dedicato alla divina zampogna esposta davanti alla grotta del dio Pan (strumento che passa nelle mani dell'unico in grado di poterla suonare ancora: Jacopo Sannazaro, appunto) e alla sua missione nel tempo. In questo modo l'autore consacra il suo addio all'utopia.