Fermi, tanto non farete mai centro
La Bestia che cercate voi, voi ci siete dentro
La Bestia che bracchiamo è il luogo dove ci troviamo
(Dalla raccolta Il Conte di Kevenhuller)
Giorgio Caproni, chi era costui? Un poeta amante della musica, musico, schivo, austero, di cui Pasolini apprezzava l’ermetismo contradditorio, selvatico e metrico, un po’ carducciano ma nervosamente imprevedibile, tragico ma con settecentesca grazia, ricco di una virile e solitaria scapigliatura tanto da definirlo “uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario”, in quanto il suo pensiero poetico appare libero da tesi, scevro dal peso di ossessioni cerebrali o ideologie.
Testori colse con ammirazione della sua opera il coraggio metafisico, la vertigine borderline da “teologia del nulla”, il collassare centripeto della parola che sbriciolandosi come meteora sa ancora farsi Parola. Citati ha saputo valorizzare la sua “venatorierà spirituale” fatta di silenzi, nudità, scorze. Una poesia anticonsolatoria, secca, stoica, trasfigurata da una “mente miracolosamente esatta, capace di trasformare qualsiasi sensazione o sentimento in una forma geometrica (non euclidea, aggiungo io), quella precisione che conosce solo chi ha abitato profondamente il regno del Vuoto”.
È vero: la sua raccolta Il Franco Cacciatore è tutta un’avventura nell’Invisibile e dall’Invisibile, fatta di fughe, nascondimenti, inseguimenti, attese, svuotamenti, una ricerca senza ricerca, che non vuole “con-cludere” se non un terso canto, perché è già in se stessa conclusa. Calvino fissa l’attenzione con acutezza sull’elegia (nonostante tutto) ancora cantabile della scarna e ruvida quotidianità dell’uomo di Caproni, che si accompagna con bicchieri di vino e di latte, e si lascia sorprendere per un attimo da soste in osteria, sempre “come di passaggio”. Per Calvino a dominare è l’“ontologia negativa” che preme su di un vivere fragile, opaco, che si scioglie più in assenza che in voce. Anche lui coglie il senso di grazia e di vertigine e, unico, sottolinea quello che anch’io amo in Caproni, fra i molti aspetti: la sobria teatralità fatta di gesti, suoni, di un parlare che agisce sottilmente, di sogni ad occhi aperti, e che sa ridursi fino alla povera densità propria di un motto, di uno stemma araldico, semplice ma tagliente, potente.
La grandezza della poesia di Giorgio Caproni forse viene proprio dall’accettazione spartana della paradossalità della vita quanto pure della sua ordinarietà. Per questo lo amo: la sua è una poesia paradossale, schiettamente così asciutta da fermarsi senza sconti dentro rebus ed enigmi, follia e cortocircuiti logico-esistenziali. E tutto senza retorica né compiacimento. Una poesia saturnina, invernale, fredda e secca per chi ama come me il freddo secco, l’aria che brucia.
Giorgio pone il baricentro delle sue folgoranti visioni liriche in un gioco di altalene e contrappesi fra la densità della forma e la fluidità del ritmo, fra guizzo e rima, equilibrio e scatto in avanti. Poesie antiche, demodè, ancora in rima, eppure nuovissime in una ruvida sete di verità estrema fino a palpare in un soffio l’ineffabile del nulla e la gravezza della totalità. Amabili nei suoi componenti la sua abilità nei ribaltamenti di senso, nei duri giochi che avvicinano il canto all’aforisma, l’elevazione spirituale alla secchezza inesorabile del proverbio, lo slancio dell’epos alla nudità di una passeggiata solitaria fra i boschi.
La caccia assume così la funzione mitizzante di una forma dentro la forma poetica, più di una metafora e meno di un artificio; piuttosto un corpo narrativo camaleontico, sfuggente, sanguigno quanto aereo. La rima tiene unita nella coerenza della forma la forza fisica di un racconto di vita, mentre il fuoco di un logos dissolvente, quasi acido o acetico, ribalta le prospettive spiazzandoci, cogliendoci con la vertigine di un passo falso, di una caduta, che Giorgio sublima sempre in un piccolo immenso volo. La caccia è la stessa poesia di Caproni nel suo equilibrismo fra scelte lessicali che sono stili esistenziali, destini metafisici, e ritmi sincopati, sfasati. Le parole arrivano fresche di respiro affannato, ruvide di lana grezza ma eleganti come il velluto. Ogni parola ha un peso, una dignità, è preda e cacciatrice, solco e ala. La caccia è ineludibile come è un dover essere il suo cercar fuori la preda dentro cui siamo, a cui diamo carne cacciando, che il nostro respiro alimenta. La parola diventa Parola senza perderne l’ambiguità fra inganno a se stessi e furia d’esistere e di (s)comparire.
Caproni ribalta le dimensioni semantiche: le vette dello spirito si rivestono di sanguigno rovello e le distanze del racconto si fanno siderali quanto vicinissime. La sua poetica è fatta di osterie, boschi sparsi, angoli, tavoli, intercapedini, cavedi, lucedi, zone di penombra. Corpi in via di oblio e di passaggio mentre dentro la Parola la caccia inesausta continua fino a una lucida follia. Una Parola di soglia, un poiein liminare, come camminare su crinali e torrenti ghiacciati. “La Bestia che vivifica e ti uccide… Io solo, con un nodo in gola, sapevo. È dietro la Parola”. E ancora: “Mi piacciono i colpi a vuoto. I soli che infallibilmente centrino ciò che enfaticamente viene chiamato l’Ignoto”.
La caccia è avventura metafisica, fatale nella sua inconcludenza, travaglio creativo nella dissipazione, laborìo di rarefazione. Azione intransitiva, sfingea. Le parole come tagliole, gemme grezze. Tutto sembra mistero ma un mistero duro, spigoloso, spesso ostile. “Buttate pure via ogni opera in versi o in prosa. Nessuno è mai riuscito a dire cos’è, nella sua essenza, una rosa” . La Caccia quale silente amor fati, cerca della propria cerca, ri-cerca quale ripetizione e perdita. “Sfondata ogni porta, abbattute le mura, è il cosiddetto Infinito la nostra vera clausura?”.
Eppure permane nella sua opera quasi sempre lo stupore, fonte della liricità come della filosofia, anche se vuoto, nudo, come un assurdo: uno stupore disincantato! Ogni grande artista accoglie in sé molteplici opposti e allora ricordiamo Festa notturna, dove accogliamo il miracolo di uno stupore infantile, che già fu di Leopardi e di Pascoli, uno stupore che ha ancora il coraggio della parola “speranza”, che timida si alza dal senso rurale e sensoriale di una sagra paesana: oltre i clarini e le voci clamanti, e oltre i vini cui s’accelera il sangue, da sudore giovane l’aria insipida un sapore leggero di letame e di cipria acquista fino al canto dei grilli – apre la vista acuta fino all’ultima distanza dei monti, e allucinata la speranza ravviva in petto a dire non finita dentro la notte la limpida vita. Come improvvisa e irrazionale compare talvolta persino l’allegria: "Faceva freddo, il vento mi tagliava le dita. Ero senza fiato. Non ero mai stato così contento". La sensorialità in Caproni è istinto e volo, pathos che diviene epica con e da piccole cose, come con la parola Genova e le decine di associazioni di immagini in Litania, o nella visione semplice e fresca di Marzo.
Il gusto della caccia è l’eroismo povero di chi sa che tutto è confine e nulla è baluardo, che le porte sono murate e intransitive e la parola è Morgana, che la caccia tra le nebbie del viaggio della vita ci porta a sparare contro noi stessi, a restare soli con noi stessi. E Giorgio questo lo accetta come una paradossale conquista, come una propria spoglia vetta. Mistico senza Dio sa cogliere la bellezza e il calore nelle piccole cose, negli spazi angusti, quanto nei lunghi silenzi di paesaggi brulli. "Per quanto siano bui gli alberi, non corre un rischio più grande di chi resta colui che va a rispondere ad un fischio" (Il fischio, parla il guardiacaccia).
Giorgio comprende che sono questi spazi di assenza, queste zone ibride e svanenti, questi “paesaggi di passaggio”, le ultime terre del Logos, anche se è un Logos che appare folle, criptico, irrisolto. Tutte le maschere si sottraggono all’alto cammino tranne la maschera della terra e del vento, sembra insegnarci. E così si raggiungono con facilità vette intellettuali estreme alla Silesius e alla Eckhart. Sembra prigioniero della sua stessa sete di libertà. Chiuso nella piccola immensità di una vetta. Scrivendo di te non si può non assimilarsi al poiein. Perché cacciare è arte filosofica, è cantare la persistenza dell’effimero, è saper attendere e ascoltare, è volersi fermare ma solo di fronte al limite, è fuggire sapendo che è vano, è tornare dall’oblio ad altro oblio. "L’uomo uccide se stesso uccidendo l’altro"… Non è questa ascesi? La poesia è silenzio e pausa fra le musiche che non possiamo raccontare. Metafisica della Parola preda e della Parola Bestia. Perché non ci si può sottrarre alla caccia e all’andare…
Ogni oggetto è causa della sua visione / ogni visione chiede una causa
Per tentare di vivere ancora (animale incacciabile) eco di ogni fiato
(G.M. Prati per Giorgio )