Mi accompagni all'uscita, per l'ultima volta. È una scena che passa lenta nella mia visione esterna delle cose. Sento le grida dei bambini che escono da scuola, e penso: sono felici, hanno fame, pensano ai giochi che faranno a casa, non pensano ai compiti, adesso.
Non posso dirti nemmeno una frase di circostanza. Guardo la punta consumata dei miei stivali. Vedo in una prospettiva cieca la punta dei tuoi piedi nudi dietro. Come potrei farti male fermandomi, mentre tu avanzi. E non mi fermo, infatti. Muovo questi passi da condannata a morte mentre mi lego la sciarpa intorno al collo. Arriviamo in questo punto di confine tra casa tua e il resto del mondo, che si raggiunge come gli inferi giù per le scale. Mi volto, ti incontro per l'ultima volta, con la foga moribonda del distacco nelle costole. “Allora vado.”, dico. “Sì.”, rispondi.
Avrei voluto spezzarmi nella tua bocca, come l'anima sottile della caramella, come la voce che trema quando ama, come lo schiocco della lingua quando neghi. Avrei voluto fermarti sulla porta, quando non era la porta, ancora, a fermare me. E dirti “aspetta” restando ferma, solo con la mia fronte sulla tua.
Invece la porta si è chiusa, e nessuno di noi due l'ha fermata. Si è chiusa, senza impedimenti. Liscia, senza nemmeno cigolare, senza nemmeno grattare il pavimento. Solo il suo tonfo onomatopeico da cartone animato, che mi rimbalza sulla schiena come un corpo morto.
Io resto ferma, che ho di fronte un pianerottolo e non la tua fronte. Non il palmo di luce che lievita di vene tra i tuoi capelli e gli occhi. Che chiama baci di confidenza e tenerezza, quelli che non do alla tua bocca quando mi parla. Resto ferma, con tutte quelle scale da scendere fino alla lava, a quel centro del mondo che non sei tu, quindi mi uccide. Guardo le mani che avrebbero potuto spingere lo stipite, mettersi in mezzo stritolandosi le dita tra te e il legno, questa specie di bara mia, allargata, che si chiude con le tue chiavi di casa.
Non mi volto e provo a fare un passo, ma tu da dentro mi tieni prigioniera del tuo abbraccio. Guardo a terra, il tappetino dei tuoi welcome coi pesi inutili di tutti, col peso mio, mentre il tuo lo percepisce solo in volo, nel quotidiano del tuo sfrecciare avanti e indietro da questi muri, bianca e leggera come un raggio. Provo a fare un passo, e le mie gambe rispondono al comando, come per istinto di sopravvivenza.
In fondo alle scale gli inferi sono in piena luce del sole, le auto suonano il clacson e gli studenti si portano a spasso i libri fotocopiati dei loro esami. Il pullman è sempre puntuale quando non vuoi andare via. Il finestrino con le sue scritte idiote indelebili.
“È occupato?” mi chiedono. “È occupato”, rispondo.
“È occupato per sempre”.