Laura Panno, scultrice dalle molteplici esperienze creative, che vanno dalla fotografia all’incisione, dalla pittura all’illustrazione, trova nella natura, nel corpo, nel nudo, alcune delle fonti della sua poetica, fatta, al contempo, di fisicità e trasparenza. È docente e coordinatrice del Biennio di Grafica in Arti Visive all’Accademia di Brera.
Cosa vuole raccontarci di lei?
Il racconto di me è il racconto che narra della vita di un’artista, di una donna sempre in movimento, ma con base solida a Milano. Mi risulta davvero difficile dire chi sono e prenderò allora spunto da uno “specchio” autorevole in cui mi sono, con sorpresa, vista e riconosciuta. Si tratta dell’intervista per Madame Figaro, dove compaio, con una fotografia nel mio studio dietro la Pinacoteca Ambrosiana, tra le opere che in quel periodo erano state esposte in un’interessante mostra alla Mole Antonelliana. In realtà non pensavo facesse poi notizia a livello internazionale. Soltanto oggi, lei mi dà l’occasione di ripensarci e…
Questo ricordo cosa le suscita?
Leggere casualmente il proprio nome su un quotidiano come Le Figaro per costatare un riconoscimento inaspettato e vedere il mio ritratto... mi ha piacevolmente sorpresa. Era un articolo che mi includeva tra i nomi di 12 grandi italiane. Il giornale francese voleva evidenziare delle personalità femminili, non necessariamente legate al mondo televisivo, politico o glamour, dell’epoca. In Francia la sensibilità culturale è più attenta e per questo un’artista e docente a Brera come lo sono io, è stata inserita in un gruppo di donne italiane, indipendenti e operative. Mi ci sono ritrovata, ma essendo per natura auto-critica, ne ho colto solo il beneficio di incoraggiamento, auto –sostegno personale, per non arrendermi nel portare avanti una ricerca solitaria in una società ancora maschilista, edonistica e superficiale.
Siamo ancora alle prese con una discriminazione tra maschile e femminile?
Alle mie studentesse chiedo di semplificare la mente e di pensare in maniera meno arzigogolata. Insisto nel dire che l’arte non ha un maschile o un femminile. Noi donne pensiamo troppo, un mio fidanzato mi chiamava “Cogito”: leggeva nella mia distrazione d’artista troppi pensieri che mi complicavano la vita. È vero, l’uomo, più semplice, si carica di obiettivi monocordi e ottiene più facilmente il risultato. Vengo da una famiglia dove il matriarcato ha creato ricchezza, e una mia bisnonna vedova è stata un esempio di pioniera della libertà. Molto autonoma, in una società ancora ottocentesca, si avventurava nella notte a cavallo per raggiungere le città limitrofe, per il commercio, e riusciva a farsi rispettare anche dai banditi. Mia madre ci raccontava la sua vita, e forse mi è parsa una favola, diversa e preferita a Biancaneve e a La bella addormentata nel bosco.
E Laura Panno, emersa da questo mondo da fiaba, che donna è diventata?
Come personaggio sono una donna libera nel pensiero e nei fatti, il mio carattere sembra combattivo, ma non lo è. Sono molto sensibile, resisto , ed è la resistenza civica la missione incompresa dell’artista. Si tratta di vincere la paura di non farcela e superare la solitudine della creazione. La ricerca artistica è di per sé solitaria e se non stai nello studio per ore, con un pensiero ossessivo di trasformazione, non succede nulla.
Questa è la tradizione dal versante femminile, e dalla parte maschile cosa succedeva?
La generosità di mio padre, partigiano, mi aiuta a vivere. A lui devo l’esempio dell’onestà; faceva parte della lotta partigiana giovanissimo e, solo alla sua morte, abbiamo potuto conoscere esempi eroici delle sue azioni nella Resistenza. Ha scelto di combattere per la libertà, era colto, ma ha dovuto pensare a quattro figlie, che voleva laureate e soddisfatte. Io avrei dovuto laurearmi in Architettura e dipingere soltanto per hobby. Se non fossi rimasta orfana di padre, l’avrei assecondato per una laurea anche in Architettura a Venezia, e avrei vissuto lì. Invece, diplomata in Pittura, ho preso la sua auto per venire a Milano, e mi sono iscritta al corso di Scultura a Brera con Alik Cavaliere.
Torniamo alla narrazione della sua storia attuale...
Oggi posso dire che ho avuto l’occasione di stemperare illusioni e incertezze nell’essere, per metà della mia vita, una docente; insegno e sono generosa, soprattutto con chi ha talento. Mi piace insegnare, dove sento di dovermi comportare come una donna equilibrata e di esempio costruttivo. I giovani hanno bisogno di essere stimolati, incoraggiati con esempi, regole, conoscenze storiche che contribuiscano alla crescita intellettuale e pratica. Oltre il nutrimento teorico e poetico,esiste fortunatamente quello del “fare”. Solo creando e facendo ci si avvia in un percorso di maturazione, anche un errore può dare nuove possibilità, può far cambiare strada… Dopo anni di esperienza, riconosco che l’insegnamento mi consente la coerenza e la libertà di pensiero.
Cosa succede nel processo di insegnamento/apprendimento? Quale magia scatta in questa straordinaria relazione?
Il laboratorio inteso come “fucina e officina dei nostri sogni” è una realtà della mia disciplina, e ne raccolgo grandi soddisfazioni, realizzandomi come donna e persona. Il pensiero morfologico del creare facendo è come un viaggio che non ha punti di arrivo, ma soste piacevoli e rigeneranti. Rincorrere un’idea e raggiungere anche risultati inaspettati con l’esperienza è un dono grandissimo che ci permette di sognare e così realizzo opere per me stessa e “progetti “ per e con i giovani artisti.
Ci parli della sua poetica...
Amo la scultura, ma la mia propensione veneta per le trasparenze pittoriche mi ha portato all’uso di una reticella metallica che, modellata in alto-rilievo, dà alla mia pittura, che chiamerei “picto-scultura”, una terza dimensione. Fu quell’idea che mi portò ufficialmente nel mondo delle gallerie d’arte e alla Biennale del 1982 a Venezia. Lì presentai opere tridimensionali agli ex-cantieri navali della Giudecca. Quell’idea, dopo molte realizzazioni ed esposizioni, mi ha reso riconoscibile come la “scultrice della rete”. L’amore per le trasparenze mi ha portato a un rapporto privilegiato con la materia vetro, recuperando i valori della scansione luminosa: fuoco, luce, ombra, trasparenze, sono elementi fondamentali delle mie opere.
Nelle sue opere la materia si fonde con il corpo in un rapporto intimo, sensuale...
Alcuni collezionisti mi definiscono infatti artista erotica, poiché molte mie sculture sono nudi visti di schiena, con glutei maschili e femminili molto plastici. Tutti, uomini e donne, sono affascinati dalla plasticità dei seni e del “lato B” e io ,per prima, ho dato vita a un “Alfabeto del Corpo", focalizzandone le parti ovali, come gli occhi, la bocca, il seno ecc., e l’alto rilievo della rete metallica, trasparente e dipinta, sovrapposto alla pittura, sottolinea la sensualità delle pieghe e rotondità plastiche del corpo. D’altronde, trasformare, plasmare, accarezzare per modellare ha un’indubbia componente erotica.
L'affascina anche l'incisione?
L’incisione, che insegno a Brera, ha affascinato scultori e pittori. Il segno, diretto e indiretto, nella mediazione della calcografia in rilievo, ha una magia che evidenzia la sensibilità dell’artista nel mondo della figurazione o dell’astrazione. Se però non la pratichi, non puoi conoscerla e captarne i segreti, che sono visibili nella freschezza della stampa. Come in una storia d’amore, ci si deve frequentare a lungo, per conoscere qualità e difetti...
È davvero curiosa di sperimentare il nuovo?
Devo dire che sono aperta a tutte le ricerche trasversali anche nell’insegnamento, comprese le tecnologie fotografiche e digitali. Diventa molto impegnativo, ma alla fine formo nuovi artisti che maturano in rapporto alla ricerca del contemporaneo. Se ci sono talenti, posso leggere nel lavoro del laboratorio, mentale e pratico, le possibilità che hanno, ma non escludo mai il rapporto e la conoscenza della storia dell’arte, e obbligo i miei studenti a visitare i musei.
Quanti insegnamenti fondamentali di vita, quanti incontri nello spazio e nel tempo?
Milano è una città dove vivono personalità della cultura, che incontro con piacere, ma ho comunque il rimpianto di non essere rimasta, nel 1982, a New York, una città che mi ha dato molto, come Venezia. Venezia mi ha formata, educata esteticamente e mi ha viziata. Troppo bella, con affreschi, architetture leggere, sorprendenti e l’acqua dei canali, specchiante, che la rende visivamente leggera, ma non fragile e una magica luce orientale dai tramonti ipnotici. Mi sento profondamente legata anche al Mediterraneo e ho scoperto la luce del trapanese in una ricerca visiva fotografica legata al tonno da cui è nato un libro fotografico, Corpus. In una miniera di sale delle Madonie ho scolpito un grande occhio modellando una parete di 10 metri: è stata un’esperienza meravigliosa.
Qual è il suo sogno?
Parlare del mio sogno è facile: da bambina era quello di fare o essere artista e, grazie a mio padre, ho potuto studiare a Venezia, vicino a grandi artisti e non dimenticherò mai l’impatto, all’ Accademia delle Belle Arti, con l’“aula di figura”, disegnata dal Palladio, satura di tutte le sculture in gesso, copie di capolavori di tutte le epoche. Gli incontri intellettuali e affettivi possono cambiare la vita di ognuno di noi: se da ragazzina non avessi incontrato Peggy Guggenheim, nella sua casa veneziana, con artisti che lei adorava e da cui ho imparato molto, mi sarebbe mancata una formazione culturale fondamentale. Continuo a sognare tutti i giorni, non per essere visionaria, ma per stupirmi nella realizzazione di un’idea che mi emozioni e mi stimoli, per riaprirmi una strada nuova da percorrere, o per riconoscere una “storia chiusa”. L’arte mi dà emozione, penso ai cercatori d’oro che arrivano a una fonte “aurifera.” Il tesoro e l’oro sono dentro di noi… I miei sogni li realizzo nel tempo, non credo nella fortuna del giocatore. La fortuna è poter giocare tutti i giorni con il tempo e il desiderio. Per desiderare dobbiamo innamorarci e l’amore è un’educazione necessaria per vivere.
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